Quando a notte fonda si presentò in commissariato, pieno di tic, risucchiando una sigaretta dietro l’altra, a raccontare di quattro omicidi che lui stesso aveva commesso, di un sequestro di persona, di attentati ed estorsioni, Leonardo Vitale era poco più che trentenne. Bruno Contrada, dirigente della polizia, lo ascoltava e, di tanto in tanto, mostrava espressioni di stupore. Quel giovane sconosciuto era nipote di Titta Vitale, capomafia della borgata palermitana di Altarello: oltre ad autoaccusarsi, parlava di Pippo Calò, di Totò Riina (all’epoca poco noto) e di Vito Ciancimino indicandoli come mafiosi con posizioni comunque di rilievo nell’organizzazione criminale. Era il 30 marzo del 1973.

Leonardo Vitale era un fiume in piena. Disse che aveva avuto una visione e che, dopo questa, non intendeva più continuare a fare ciò che faceva, ovvero uccidere, intimidire, minacciare su ordine dello zio. <Sono stato preso in giro dalla vita e dal male che mi è piovuto addosso sin da bambino. Poi è venuta la mafia, con le sue false leggi, con i suoi falsi ideali: combattere i ladri, aiutare i deboli. E uccidere: pazzi. I Beati Paoli, Coriolano della Floresta, la Massoneria, la camorra napoletana e calabrese, Cosa nostra mi hanno aperto gli occhi su un mondo fatto di delitti. Bisogna essere mafiosi per avere successo, questo mi è stato insegnato. Io ho obbedito. La mia colpa è di essere nato e aver vissuto in una famiglia di tradizioni mafiose. Il mafioso non ha via di scelta: mafioso non si nasce, si diventa, ti obbligano a diventarlo>.

Descrisse la sua iniziazione: <Mi punsero il dito medio con la spina di un arancio amaro e bruciarono un’immaginetta sacra facendomi ripetere il rito dei Beati Paoli. Dopo baciai in bocca tutti i presenti ed entrai ufficialmente a far parte della famiglia di Altarello>. Ma prima di essere “nominato” uomo d’onore, Vitale aveva dovuto superare una prova che lo zio, il suo mentore, riteneva il passo fondamentale: uccidere un uomo. Lui, che non era riuscito a sparare a un cavallo col fucile che gli aveva messo in mano Titta – il quale, piuttosto deluso, pensava che forse quel ragazzino di appena 17 anni non sarebbe mai diventato “uomo” – al secondo tentativo non fallì. Il bersaglio era tal Mannino, uno che chiedeva il pizzo nel territorio di Altarello senza l’autorizzazione del capo mafia. <Arrivai sul posto con una Topolino decappottabile e, quando vidi Mannino arrivare, sollevai la cappotta e gli sparai due colpi di lupara>. Il battesimo. A questo omicidio ne seguirono altri tre, commessi con altre persone, non necessariamente dello stesso clan.

Fece altri nomi di picciotti come lui, appartenenti ad altre famiglie. Nel processo a 46 mafiosi che seguì alle sue dichiarazioni i soli a essere condannati furono lui e lo zio Titta per un omicidio, gli altri vennero tutti assolti. Leonardo, in preda ormai alla sua crisi mistica, venne rinchiuso nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, dove rimase diversi anni. Di lui, che venne soprannominato il “Valachi di Altarello”, sembrava ci si fosse dimenticati. Già, perché dentro Cosa nostra, nel frattempo, era scoppiata la rivoluzione. I corleonesi, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, presero il sopravvento sulle famiglie palermitane, eliminarono tutti i rivali governando l’organizzazione con il pugno di ferro e, soprattutto, con il fuoco delle pistole e dei kalashnikov. Migliaia di morti insanguinarono la Sicilia, oltre mille solo a Palermo. Il traffico di droga internazionale, gli appalti, le estorsioni e l’intero giro di affari erano gestiti da Riina e dai suoi accoliti.

Che, però, esagerarono. Tanto che nel 1984, Tomaso Buscetta, uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova, dopo aver assistito allo sterminio della sua famiglia e dei suoi amici da parte dei “viddani” di Corleone, decise di fare il grande salto: collaborare con la giustizia per fermare una strage infinita e senza senso. Il racconto di Buscetta, dall’alto della sua posizione di uomo d’onore, portò all’emissione di 366 ordini di cattura nei confronti di altrettanti mafiosi e consentì alla giustizia italiana di imbastire il primo grande processo a Cosa nostra, ma questa è un’altra storia. Buscetta parlò dell’iniziazione, della struttura piramidale della mafia, delle famiglie e dei mandamenti. Cose che Leonardo Vitale, sia pure de relato e con meno ricchezza di particolari e di nomi, aveva raccontato undici anni prima. Ma nel 1973 si preferì considerarlo pazzo anziché verificare la sua deposizione.

Le parole di Buscetta mandarono in bestia Riina la cui vendetta non sarebbe tardata ad arrivare. A giugno del 1984 Leonardo Vitale, che era appena uscito dal manicomio dopo aver scontato la condanna, venne intervistato da Giuseppe Marrazzo, inviato dalla Rai per un reportage sulla mafia a Palermo. Sguardo un po’ stralunato, sigaretta in bocca, il primo pentito di Cosa nostra pronunciò una frase profetica: <So che mi ammazzeranno>. Il 2 dicembre di quell’anno, una domenica mattina, un commando di tre killer aspettano che torni dalla messa con la mamma e una sorella e lo crivellano di colpi. Morirà dopo cinque giorni di agonia in ospedale. Non ha avuto la notorietà di Tomaso Buscetta, di Salvatore Contorno, di Nino Calderone o di Giovanni Brusca, per citarne alcuni, ma Leonardo Vitale è stato importante. Un anticipatore. I tempi non erano ancora maturi, hanno riconosciuto nel 1985 gli stessi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: <A differenza della giustizia statuale, la mafia ha percepito l’importanza delle propalazioni di Leonardo Vitale e nel momento più opportuno lo ha punito inesorabilmente per aver violato la legge dell’omertà. E’ augurabile che almeno da morto Vitale trovi il credito che meritava e che merita.

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