Se vi sembra che le patatine o la Coca cola finiscano più in fretta di prima, non è detto che siate diventati più voraci: forse state solo facendo i conti con la shrinkflation. Stessa confezione, ma minore quantità di prodotto all’interno: è lo stratagemma utilizzato da molte aziende (non solo del settore alimentare) per cavarsela rispetto all’aumento dei costi e all’inflazione. Infatti il termine inglese che identifica questa pratica deriva dalla contrazione delle parole shrink (restringere) e appunto inflation, che non ha bisogno di traduzione.

Il ragionamento di base è: se aumentiamo i prezzi, il consumatore se ne accorgerà e potrebbe smettere di comprare i nostri prodotti oppure comprarne di meno. Invece lasciando invariato il prezzo, ma riducendo le quantità vendute, si ottiene comunque l’effetto di aumentare i profitti (o almeno di compensare l’aumento dei costi di produzione) e nella gran parte dei casi l’acquirente alla cassa o davanti allo scaffale del supermercato non nota niente di strano.

Molti esempi

È un fenomeno ampiamente noto e messo in pratica anche in passato, ma la crisi che sta affliggendo tutto il mondo occidentale ne sta moltiplicando gli esempi. Il riferimento alle patatine è legato al caso celebre delle Pringles, che qualche tempo fa ha ridotto da 200 grammi a 185 il contenuto del suo celebre tubo rosso. Lo ha rilevato tra l’altro il Centro consumatori di Amburgo, un’associazione diventata ormai un’autorità in materia, che ha segnalato di recente – come ha ricordato, in Italia, il Salvagente – anche i casi del KitKat e del Lion: all’interno di alcune confezioni di questi snack è stato ridotto il numero delle barrette.

Il Centro tedesco segnala tra l’altro regolarmente il “pacchetto ingannevole del mese”: uno degli ultimi pubblicati sul sito www.vzhh.de riguarda il formaggio spalmabile Rama della Upfield (non in commercio in Italia), che a parità di prezzo mette ora, nello stesso contenitore, 400 grammi di prodotto anziché 500. Di fatto, un aumento addirittura del 25 per cento.

La homepage di www.vzhh.de, il sito del Centro consumatori di Amburgo
La homepage di www.vzhh.de, il sito del Centro consumatori di Amburgo
La homepage di www.vzhh.de, il sito del Centro consumatori di Amburgo

La tecnica della riduzione del peso è la più diffusa, non a caso c’è chi traduce in italiano shrinkflation con “sgrammatura”, che forse però non rende in pieno l’idea. Però ci sono molti altri modi per operare un aumento occulto dei prezzi. Fuori dal campo del cibo, ci sono marche di fazzolettini che stanno mettendo in commercio pacchetti da nove anziché da dieci; oppure è stato ridotto il numero delle pastiglie per la lavastoviglie contenuto in scatole per il resto del tutto uguali a prima. Chi compra subisce comunque il peso dell’inflazione, ma non se ne accorge.

Il monitoraggio del Garante

Proprio questa scarsa trasparenza è il vero problema. Le associazioni dei consumatori in Italia hanno denunciato questa pratica e qualcuna, come il Codacons, ha presentato un esposto a tutte le procure della Repubblica. Soprattutto l’autorità Antitrust ha annunciato qualche settimana fa un monitoraggio della shrinkflation.

Di per sé non c’è niente di illegale, qualsiasi azienda è ovviamente libera di decidere come confezionare i propri prodotti. Il profilo che potrebbe giustificare un intervento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato riguarda appunto la carenza di informazioni ai consumatori: l’ipotesi che stanno verificando gli uffici legali dell’organismo è che questo possa costituire una pratica commerciale scorretta. “Ciò che l’Antitrust rileva non è tanto la riduzione in sé della quantità di prodotto contenuta nella confezione, quanto la trasparenza di tale modifica nei confronti del consumatore”, ha detto infatti Giovanni Calabrò, direttore generale per la tutela del consumatore.

Certo, non è chiaro come potrebbe essere soddisfatta quella necessità di trasparenza. Spesso, per altro, all’operazione di shrinkflation si accompagna un restyling generale delle confezioni, che contribuisce ulteriormente a confondere le idee. E ormai la pratica si sta estendendo ai ristoranti: vari titolari di locali hanno ammesso che, in seguito all’aumento delle spese di esercizio dell’attività (bollette e materie prime in particolare), per non rendere esorbitanti i prezzi del menu hanno rimediato riducendo le porzioni nei piatti. Certo, per chi deve far quadrare i conti aziendali in un momento in cui tutti i costi impazziscono, è quasi una forma di legittima difesa. Ma il cliente, quando si alza dal tavolo senza che gli sia passata la fame, troverà sempre in quella cena un retrogusto di beffa. 

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