Centotrenta fotografie in bianco e nero, una sintesi dei suoi reportage di viaggiatrice lieve in giro per il mondo. “Sono tutta negli occhi”, il titolo della mostra dedicata a Sebastiana Papa (1932-2002) che si è chiusa lo scorso fine novembre a Teramo. Un’esposizione con cui, a vent’anni dalla morte, la città natale ha ricordato la grande fotografa che tra gli anni Sessanta e i Novanta ha raccontato il mondo, dall’Africa all’America, dall’Unione Sovietica a Israele, dalla Turchia al Nord Europa, posando il suo sguardo sui bambini, sui vecchi, sui diseredati, ma soprattutto sull’universo femminile.

Una carrellata delle immagini raccolte con la sua Leica M3, durante il suo viaggio cominciato appena trentenne, nel 1964, quando in Polonia fotografò Zivia Lubetkin Zuckerman, superstite dell’Olocausto e leader della resistenza ebraica nel Ghetto di Varsavia del 1943. Due anni dopo era a Mosca, e poi in India, e in Israele, in Africa, in Francia, in Nepal con un’attenzione speciale per la condizione femminile, raccontata anche quando - nel 1966 - arrivò a Orgosolo per cercare, sicura di trovarli anche qui, gli sguardi e le storie da raccontare. Come lo sguardo (e la storia) della giovane donna che, con tante altre, accompagna un funerale. Era una delle immagini in esposizione a Teramo, una delle donne orgolesi ritratte da Sebastiana Papa assieme a tutte le altre da lei incontrate in giro per il mondo.

Tanti di questi ritratti visti a Teramo li aveva già esposti proprio a Orgosolo nella mostra “Il femminile di Dio”. Il femminile di Dio erano le vedove di Vrindevan, le sfrontate paracadutiste di Kinshasa, le monache benedettine che giocano e lavorano. La ragazzina cinese col futuro dentro agli occhi, il primo piano intenso di una prostituta di Bombay, una giovane madre palestinese che dà da bere una lattina al suo bambino. «Ha visto il segno che portano in fronte le donne indiane che ho fotografato? È il punto, il cerchio che simboleggia la perfezione: la donna la raggiunge in questa vita, perché partorisce, dà la vita... L’uomo no, non è capace», spiegava.

C’era una foto che ritraeva una monaca ortodossa al Santo Sepolcro: la religiosa tiene in mano un lumino sul libro delle preghiere, il viso illuminato dalla luce riflessa dal libro stesso. «La libertà delle donne si costruisce sulla cultura, sulla conoscenza», spiegava Sebastiana Papa. «Si costruisce sulla comunicazione delle nostre esperienze, perché è di una cultura femminile e di libri fatti dalle donne che abbiamo bisogno».

Aveva un modo tutto suo di posare il suo sguardo e farsi guardare negli occhi. Era empatia, la sua, non solo tecnica. «Una foto giusta e vera, quella dove non esistono forzature, è soltanto quella in cui si riesce a cogliere e a fissare in eterno l’attimo in cui il fotografo e il fotografato sono sullo stesso piano di soggetti in assoluta parità; l’attimo in cui riescono a comunicare, a dirsi le proprie storie». Nessuna immagine rubata. «No, non rubo mai le foto, io. Che senso avrebbe? Come non hanno senso le foto di soggetti, oggetti in questo caso, in posa», spiegava. «Tutte le mie donne sanno, devono sapere che sono presente e che le sto fotografando, anche se, magari, il loro sguardo, il loro pensiero è altrove. Se non si accorgono di me faccio così, un piccolo battito col piede, per avvertirle...». E per poi andare via, con quell’attimo divino dentro uno scatto. 

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