Qualcosa riaffiorava di tanto in tanto. Magari dopo una delle energiche mareggiate di scirocco che si abbattevano sulla costa contro il lungomare di Sant’Elia distante appena duecento metri dal punto in cui l’antica nave giaceva da centinaia d’anni. Lo conoscevano eccome, quel relitto, i subacquei apneisti, i raccoglitori di ricci e i pescatori di polpi che su questo basso fondale davanti al vecchio borgo e ai palazzoni del popoloso quartiere cagliaritano si sono da sempre immersi. Nessuno di loro, però, aveva mai compreso quanto grande fosse quello scafo nascosto da sabbia e posidonia e adagiato su una secca profonda appena quattro metri e mezzo. Le voci, i racconti, le testimonianze erano quelle narrate dalle genti di mare. cariche di fantasia. Narrazioni e immagini che spesso si allontanavano dal reale.

I resti della piccola pipa di fabbricazione inglese (foto concessa)
I resti della piccola pipa di fabbricazione inglese (foto concessa)
I resti della piccola pipa di fabbricazione inglese (foto concessa)

Poi in quel punto esatto sono scesi gli archeosub della Soprintendenza, e quella nave ha cominciato a indossare i vestiti della storia. L’indagine subacquea è stata necessaria perché si potesse dare il via libera alla costruzione del nuovo porto peschereccio di Sant’Elia. Percorso obbligatorio al pari delle prospezioni per scoprire l’eventuale presenza di ordigni bellici.

La carta d’identità della nave di Sant’Elia ha cominciato così ad arricchirsi di dati. Intanto la data di nascita: 1600. Bandiera: inglese.

Gli archeologi subacquei misurano lo scafo (foto concessa)
Gli archeologi subacquei misurano lo scafo (foto concessa)
Gli archeologi subacquei misurano lo scafo (foto concessa)

Dal suo ventre, dopo una prima campagna di scavo promossa dalla Soprintendenza (cui però non è mai seguito un secondo cantiere subacqueo di ricerca), spuntati «elementi importanti» per poter datare lo scafo e ricostruire in qualche modo i giorni dell’inabissamento. Spostata la sabbia, liberati in parte chiglia, madieri e ordinate, sono emerse le tracce di un fuoco di bordo che quattrocento anni fa decretarono, probabilmente, l’affondamento. I legni anneriti dalle fiamme si sono stagliati davanti alle maschere dei sommozzatori dell’impresa Oti Sub guidati dall’archeosub della Soprintendenza, Ignazio Sanna. «Non è però certo che questa sia la causa primaria del naufragio, il rogo - spiega Sanna - potrebbe sempre essere divampato dopo la collisione della nave sul basso fondo, sulla secca che davanti al litorale corre parallelamente fino al porto di Cagliari».

Sono state le caratteristiche costruttive del veliero-cargo a indicare l’origine inglese. A contribuire sono stati anche altri «elementi di bordo» come il fornello di una piccola pipa sprovvista della cannula di legno divorata dagli anni e dalla lunga permanenza sott’acqua, i resti di una botte nascosta sotto il paramezzale (probabilmente deputata al trasporto dell’acqua) le cui doghe erano tenute ferme non da un anello di ferro ma da fibre vegetali di salice e nocciolo.  

L'archeosub Ignazio Sanna (foto archivio L'Unione Sarda)
L'archeosub Ignazio Sanna (foto archivio L'Unione Sarda)
L'archeosub Ignazio Sanna (foto archivio L'Unione Sarda)

«La pipetta, lunga appena due centimetri - ricorda Ignazio Sanna - era di fabbricazione inglese e le sue ridottissime dimensioni raccontano di quando, intorno al 1500, in Europa si cominciava a gustare le prime foglie di tabacco importate dall’America. Solo più tardi, quando l’uso si impose sul mercato inglese e olandese, anche le pipe divennero più grandi per poter contenere una maggior quantità di tabacco».

Il relitto, che avrebbe necessità di ben altri studi, ha anche molti altri segreti da scoprire. Da questi si potrebbero conquistare informazioni utili per ricostruire la storia dei traffici marittimi in Sardegna.

Le lastre di ardesia grigio-argento che i sub archeologi hanno scoperto in quel che un tempo era la stiva del veliero-mercantile, da dove provengono? Sistemati “a contello” per evitare il loro spostamento durante le lunghe traversate e in particolare durante le mareggiate, i manufatti venivano estratti dalle miniere della Galizia ma anche da quelle della Liguria. Le prime ricerche al microscopio portano verso la regione iberica, dove queste rocce sono piuttosto diffuse anche sulle scogliere.

Insomma, arrivava davvero dall’Inghilterra, il veliero di Sant’Elia? E in Galizia aveva fatto tappa per caricare le lastre d’ardesia destinate a qualche porto? C’è un altro oggetto di bordo recuperato dai sub a indicare che quel “bastimento” era solito viaggiare in Atlantico: un sestante (o meglio, parte di esso), che i navigatori utilizzavano per le traversate in mare aperto.

© Riproduzione riservata