<Se mai dovesse accadere, lei sarà il primo a saperlo>. Poche parole, come nella natura di un “uomo d’onore”. Giovanni Brusca, era la mattina del 21 maggio 1996, stava per essere trasferito al carcere dell’Ucciardone dopo aver trascorso una notte nell’ufficio di Claudio Sanfilippo, capo della “Squadra Catturandi” della polizia di Palermo. <Mentre usciva dalla porta ammanettato, ebbe come un ripensamento – ricorda Sanfilippo – forse aveva riflettuto su quanto gli avevo detto per ore. Gli parlavo del figlioletto, della compagna, chiedendogli se realmente fosse disposto a non vederli più e a trascorrere il resto della sua esistenza in carcere. Mi ascoltava ma non pronunciò una sola sillaba>.

Sta di fatto che Brusca, soprannominato “u verru” e “scannacristiani” - l’uomo che aveva schiacciato il pulsante del telecomando per far saltare in aria il tratto di autostrada tra Capaci e Palermo al passaggio del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta; che aveva ordinato di eliminare il piccolo Giuseppe Di Matteo, 15 anni, tenuto prigioniero da quando ne aveva 13 per far ritrattare il padre Santino; che aveva massacrato con un’autobomba il giudice Rocco Chinnici, due agenti della scorta e il portiere del palazzo, e che ha ammesso di aver ordinato ed eseguito in prima persona oltre 150 omicidi - mantenne la promessa.

Racconta Sanfilippo: <Qualche giorno dopo ricevetti la telefonata del direttore dell’Ucciardone: “Brusca vuole parlare con lei” mi disse>. Il resto è storia. Uno dei killer più efferati di Cosa nostra, componente del tristemente famoso “squadrone della morte” (con Pino Greco “scarpuzzedda”, Mario Prestifilippo, Filippo Marchese “milinciana”, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Puccio, Antonino Madonia, Calogero Ganci e altri sicari più o meno noti), aveva deciso di saltare il fosso e collaborare con la giustizia. <Ho sempre trattato tutti con il massimo rispetto. Con Brusca non ho cambiato il mio approccio, ho provato a far leva sui suoi sentimenti, sulle sue debolezze. Evidentemente sono riuscito ad aprire una breccia. E questo mi ha dato una grande soddisfazione personale e professionale. Non dimentichiamo che la sua collaborazione è stata fondamentale per proseguire l’opera di smantellamento di Cosa nostra da parte dello Stato, iniziata in maniera più incisiva dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. Vorrei sottolineare che la cattura dell’uomo che uccise Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, la sua scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, per me e per i miei ragazzi è stato un momento molto esaltante>.

Quindi, Claudio Sanfilippo, palermitano, 60 anni, attuale questore di Sassari, traccia un quadro dell’esperienza nella sua città devastata dagli attentati e dagli omicidi mafiosi. Un decennio caratterizzato dalla ricerca dei criminali che avevano insanguinato il capoluogo siciliano e non solo. <La “Catturandi” era innanzitutto un gruppo, una squadra, una sezione della polizia molto ben strutturata che contava una sessantina di agenti. Da un certo punto di vista, eravamo molto freddi e altrettanto determinati. Intervenivamo solo quando c’era la certezza che in un particolare luogo ci fosse un latitante. Poi è chiaro che i dubbi ti vengono sempre>.

Quel periodo, gli anni Novanta, fu una stagione di “caccia e di cattura”. E per gli uomini di Sanfilippo un impegno straordinario. Cominciato con il botto. <Il primo fu Pietro Vernengo, boss di Santa Maria del Gesù. Era scappato in vestaglia dall’ospedale in cui era stato ricoverato per problemi di salute, portandosi dietro il televisore della camera. Lo trovammo qualche mese dopo, il 15 marzo 1992. Nella stessa giornata arrestammo il fratello Antonino, anche lui latitante, e il figlio Cosimo. In realtà, all’epoca, dirigevo la sezione antiracket della questura di Palermo. Dopo il caso Vernengo mi trasferirono alla “Catturandi”, dove portai con me dodici uomini dell’antiracket. La rifondai totalmente, scegliendo le persone una per una, e dando vita a un gruppo che un giornale, allora, definì una “macchina da guerra”>.

Esagerazioni? <No. Nell’elenco dei latitanti catturati dalla squadra ci sono Francesco Tagliavia, Pietro Aglieri, Gaspare Spatuzza, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Carlo Greco, Lorenzo Tinnirello, Pino Guastella, Fefetto Cannella, Vito Vitale, Antonino Di Salvo, considerato imprendibile da oltre dieci anni, giusto per citarne alcuni, non tutti. E parliamo di esponenti di spicco di Cosa nostra, inseriti nei primi cento, alcuni nei primi trenta latitanti più pericolosi d’Italia e d’Europa. Li abbiamo presi senza mai sparare un colpo, a conferma della grande professionalità del gruppo>. Sicuramente, tra loro emergeva la singolarità del personaggio Aglieri, ricercato da otto anni. <Riuscimmo a localizzare il covo, a Bagheria. Si trattava di una costruzione con una torretta laterale, un cortile e un capannone. Vedevamo due persone, una era Aglieri, l’altra Natale Gambino, che facevano avanti e indietro e si spostavano tra le due strutture. Immaginavamo che nel magazzino, trattandosi di due trafficanti di droga di alto livello, avessero realizzato un laboratorio di trasformazione. Scoprimmo, una volta entrati, che il capannone era stato trasformato in una chiesa, con l’altare, tre o quattro file di inginocchiatoi, il crocifisso, immagini sacre. Rimanemmo piuttosto basiti, ma solo perché ci aspettavamo altro. Anche questa è stata un’operazione che ci ha dato un’enorme soddisfazione. Era il frutto di un lavoro di anni>.

Ma nessuno, tra i boss e gli spietati assassini assicurati alla giustizia, ha impressionato in particolare il capo della “Catturandi”. Claudio Sanfilippo non fa distinzioni: <Erano tutti personaggi di prim’ordine, di grande spessore criminale. Per questo si può dire che in quel periodo storico abbiamo assestato una spallata sostanziale a Cosa nostra, a disarticolarla>. Dicono che la mafia siciliana sia tornata nei ranghi, ridimensionata e con un’influenza decisamente minore rispetto agli anni del regno corleonese. <Mai dare per morti i mafiosi>, ammonisce Sanfilippo. Che ammette la sua vera passione di poliziotto, quella ormai messa in un cantuccio, cioè catturare i latitanti. <Ma non l’ho mai dimenticata. Quando fui nominato questore a Trapani scovammo e arrestammo in Romania Vito Bigione, un grosso trafficante di droga trapanese che faceva da collante tra la Colombia, le famiglie mafiose siciliane e la ‘Ndrangheta con ramificazioni in Africa e nell’est Europa. E in Bolivia i cugini Vito e Salvatore Marino, anche loro trapanesi, ricercati per omicidio>. In ultimo, Claudio Sanfilippo si concede un piccolo moto d’orgoglio: <Ho avuto il privilegio e l’onore di occupare le poltrone che furono di Beppe Montana e Ninni Cassarà alla Squadra mobile di Palermo, ho provato un’emozione davvero profonda>.  

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