Dal buio non bisognava farsi tradire: «Sì, è vero, fa paura ma questa è la nostra più affidabile garanzia», diceva agli ultimi arrivati il maresciallo che guidava il blindato all’ingresso della base e al quale non si potevano mai fare troppe domande: «Il buio è la nostra sicurezza». A Camp Arena ci si sentiva sempre bersagli: di notte come di giorno. E l’idea che gli attacchi fossero più difficili con le luci spente non sembrava tanto convincente. Eppure, quelli che la sicurezza l’hanno studiata per anni e che i nemici li conoscevano persino meglio degli amici avevano questa certezza e la facevano persino diventare contagiosa. Dopo il tramonto a Herat bisognava spegnere tutto. Torce in mano e sempre rivolte verso il basso, giusto per essere sicuri di non mettere il piede nel posto sbagliato. Il rischio che piovessero bombe non si è mai ridotto: non c’è stato un giorno, da quando gli italiani sono arrivati, che sia stato possibile abbassare un attimo la guardia. Rischioso, anzi rischiosissimo, commettere l’imprudenza di un faro o trascurare una sola delle informazioni che l’intelligence faceva arrivare quotidianamente: report continui, briefing mattutini e pattuglie sempre in ingresso e in uscita. «Sì, perché oltre a pensare alla sicurezza di tutti, ogni giorno dobbiamo programmare il nostro lavoro principale - raccontava senza troppi dettagli il generale Enrico Barduani, che ha guidato fino agli ultimi mesi la missione italiana in Afghanistan - La nostra è un’operazione di “train, advise and assist” e questo già dice tutto. Ma dobbiamo tenere conto del fatto che siamo in un territorio potenzialmente ostile e che abbiamo tanti nemici».

Gli elicotteri dell'Esercito a Herat
Gli elicotteri dell'Esercito a Herat
Gli elicotteri dell'Esercito a Herat

I controlli quotidiani intorno alla base italiana
I controlli quotidiani intorno alla base italiana
I controlli quotidiani intorno alla base italiana

Su e giù per il mondo allora si poteva ancora circolare liberamente: bastava il passaporto, non c’era il green pass. La pandemia non aveva stravolto la quotidianità globale, ma era davvero questione di giorni. Il virus più temuto del secolo già iniziava a circolare in Oriente, anche se i contagi cinesi non rimbalzavano tra le notizie dei tg. Ci mancava poco al dramma delle terapie intensive e quello è stato l’ultimo momento in cui è stato possibile salire su un aereo militare e volare da un continente all’altro. Entrare in una base senza tampone e senza mascherina e circolare per le strade minate dell’Afghanistan, per poi ritrovarsi gomito a gomito con i tiratori scelti, respirando persino la stessa aria, nella piccola cabina di un blindato da pattugliamento. Addirittura di notte, quando ogni auto in arrivo poteva essere un carico viaggiante di esplosivo e ogni movimento, persino quello degli animali, doveva essere osservato con scrupolosa attenzione attraverso invisibili puntatori a infrarossi. C’erano i bersaglieri in quel periodo in Afghanistan: era Natale ed era l’antivigilia della guerra sanitaria che ha fatto più morti della ventennale contesa con i talebani. Finita la visita natalizia anche a Camp Arena è scattato il lockdown. Base blindata e non solo per prevenire gli attacchi: soprattutto per provare a tenere lontano il Covid. Gli estranei qui non sono più entrati e ci sono tornati solo a giugno 2021, quando pure l’Italia si è accodata alla strategia della retromarcia americana e senza perdere tempo ha ammainato la bandiera e sgomberato le caserme. Finito tutto: il programma di addestramento del farlocco esercito afgano, i progetti di costruzione di scuole, strade e ospedali, il processo di supporto alle istituzioni locali. La pace, giusto due mesi fa, era un’illusione. E la democrazia solo un sogno.

Piazza Italia nella base di Camp Arena a Herat
Piazza Italia nella base di Camp Arena a Herat
Piazza Italia nella base di Camp Arena a Herat

Un momento delle quotidiane attività addestrative dei soldati italiani insieme all'esercit afgano
Un momento delle quotidiane attività addestrative dei soldati italiani insieme all'esercit afgano
Un momento delle quotidiane attività addestrative dei soldati italiani insieme all'esercit afgano

Oggi che a Herat sono tornati i talebani non c’è più neanche Piazza Italia. Dove sventolava il tricolore, i nuovi padroni della terra degli aquiloni hanno registrato i video di giubilo che alimentano la propaganda. E chissà che fine avrà fatto la grande lapide (purtroppo molto grande) che ricordava uno per uno, i 54 soldati che da qui sono tornati a casa dentro a una bara. Nel buio totale di Camp Arena la notte s’intravedeva solo quel piccolo lumicino rosso, nello slargo dell’alzabandiera. Nelle prime righe c’era un nome familiare: Matteo Mureddu, paracadutista della Folgore, caduto sulla polvere incenerita dell’Afghanistan a settembre 2019. Aveva 26 anni e progettava di sposarsi e di tornare a vivere nella sua Solarussa. Il giorno di quell’attentato che fece sei morti è sembrato che la guerra con i talebani fosse entrata molto più prepotentemente nelle nostre case. Anche in Sardegna, a 7 mila chilometri di distanza da Kabul. Ma nei 20 anni di questa missione conclusa senza una spiegazione l’eco delle bombe si è sentita più volte. E per ripensarci bastava fermarsi a leggere sulla lapide al centro della base. Due di quei caduti,  il tenente colonnello Giovanni Gallo e il maggiore Giuseppe La Rosa, erano ufficiali della Brigata Sassari, che da queste parti ha operato per anni, spostandosi da una città all’altra, da Kabul al deserto di Bala Murghab, cancellando strada per strada la minaccia delle bombe e regalando sorrisi. Alle donne che provavano a liberarsi dalle oppressioni del regime e ai bambini che crescevano senza conoscere la brutalità dei talebani. Bisognava leggerli a bassa voce i nomi sulla lapide, perché alla regola della luce si aggiungeva anche quella del silenzio. E tra le righe ecco allora Mauro Gigli di Sassari, Gian Marco Manca di Alghero e Luca Sanna di Samugheo. 

Il sistema di difesa a infrarossi all'interno del Lince dell'Esercito
Il sistema di difesa a infrarossi all'interno del Lince dell'Esercito
Il sistema di difesa a infrarossi all'interno del Lince dell'Esercito

Lo sbarco di nuovi soldati nella base italiana
Lo sbarco di nuovi soldati nella base italiana
Lo sbarco di nuovi soldati nella base italiana

C’era pure un presepe a Camp Arena, ma nella notte di Natale c’era poco da festeggiare. Niente jingle bells, in un luogo in cui la guerra sembrava ferma solo a tempo determinato. In uno stand-by fragilissimo, sempre pronta ad infiammarsi di nuovo. Registrati i video-auguri alla famiglia, i quattro bersaglieri incaricati della pattuglia notturna erano già pronti al nuovo giro. Prima il controllo dei confini della base, poi un’ispezione in città. Procedure di sicurezza rigidissime e preparazione minuziosa: armi lunghe e protezioni tecnologiche, elmetti e giubbotti antiproiettile. Lince già in moto, motore potentissimo, fari bassi e un fucile in più lasciato sul sedile: «Sì, può sempre servire». Quello che serviva di più, nelle interminabili notti afgane, era il grande apparato di difesa montato sulla capotta del blindato: a occhio nudo, a quell’ora, fuori dal finestrino non si vedeva mai nulla, ma l’occhio tecnologico osservava tutto. Sullo schermo ogni dettaglio, analizzato con precisione dai raggi infrarossi. «Questo sistema si chiama Hitrole e permette di muovere guidare dall’interno del mezzo, quindi al riparo dai rischi, tutto l’armamento che è stato sistemato sulla capotta - raccontava il colonnello Rocco Mundo - Questa tecnologia consente quindi la protezione dell’equipaggio e dà agli operatori la possibilità di difendersi da eventuali attacchi e rispondere al fuoco». La paura non mancava mai ma quella notte tutto è filato liscio. Sospetti tanti e frequenti e controlli ripetuti, spostamenti a piedi e rientro tranquillo alla base.

Pattuglie congiunte nelle montagne dell'Afghanistan
Pattuglie congiunte nelle montagne dell'Afghanistan
Pattuglie congiunte nelle montagne dell'Afghanistan

Dove ancora qualcuno mangiava: non era un cenone, ma il menù di quella notte speciale era davvero un po’ più ricco del solito. Risotto alla pescatora e baccalà, panettone e persino qualche fetta di cotechino. Nella trincea della cucina si alternavano in 28. «Si chiama brigata quella che opera in una cucina e qui mi viene da dire che il nome è ancora più adatto. Ogni giorno cuciniamo per 980 persone: tutti sono soddisfatti ed è importante, perché mangiar bene è fondamentale per operare bene fuori dalla base. A noi però nessuno darà mai una medaglia. Ma se questa missione sarà compiuta sarà anche merito nostro».

© Riproduzione riservata