Dati i tic e i riflessi condizionati del nostro sistema mediatico – per cui qualunque elemento nuovo è “una tendenza”, se poi si replica almeno una volta diventa “una mania” e se continua gli si intitola “una generazione” – è praticamente inevitabile parlare di “maledizione Brexit”, per via del deperimento rapido e severo che conoscono le carriere di chi sia entrato in contatto con il divorzio anglo-europeo.

Naturalmente il primo caso è quello dell’ex premier David Cameron, che con il suo improvvido referendum convocato per ribadire la scelta europeista della Gran Bretagna in realtà aprì lo scrigno dove dormiva il demone sovranista, con l’intento babbeo di dimostrare a tutti che dentro non c’era nulla se non buio e polvere.

Ma sulla Brexit si è rotta i dentoni anche Theresa May, che non la volle né la combatté ma provò semplicemente a gestirla. Ko anche Jeremy Corbyn, che sulla Brexit schierò il suo Labour su una linea così paralitica, così assurdamente ambigua, così furbastra e al contempo inetta da schiantare la sua leadership, già sufficientemente divisiva oltre che opaca sull’antisemitismo.  E naturalmente una Spoon River dell’addio di Londra a Bruxelles non potrebbe che comprendere il sempre più marginale Nigel Farage, che nella campagna per il “Leave” trovò tanto il propellente quanto il limite all’orizzonte del suo Ukip, e ora si guarda attorno come un giocatore che esulta perché ha fatto tombola eppure vede che tutti continuano a giocare, senza di lui. Ed è sempre più probabile che in questa galleria delle vittime di Brexit compaia a breve il faccione del premier in carica Boris Johnson, le cui disavventure ormai vengono elencate di seguito come una filastrocca avvilente.

La novità di queste settimane però è che la maledizione, se esistesse, avrebbe fatto il salto Oltremanica: è un tonfo quasi simultaneo quello che hanno conosciuto le carriere dei due capidelegazione agli snervanti e duri negoziati sui termini del divorzio, l’inglese Frost e il francese Barnier. E per combinazione, entrambi sono caduti mettendo la punta del piede nel campo avverso.

Frost non era semplicemente un sostenitore di Johnson e un suo amico. Era il suo campione, l’uomo che doveva ridurre al minimo per i britannici gli svantaggi della Brexit e al contempo non cedere di un millimetro su questioni di principio e di sostanza fondamentali per la narrazione della New Britannia globale. Ha dovuto usare come pecette molti periodi di transizione e rinvii ad accordi di dettaglio futuri, un po’ come i provvedimenti approvati salvo intese ai tempi del governo gialloverde, ma ha portato a casa il risultato: la concretizzazione legale e politica della Brexit.

Ci ha guadagnato un titolo di barone – lo stesso trattamento riconosciuto a un’icona come Margaret Thatcher quando lasciò Downing Street - e l’entusiastica gratitudine di Boris Johnson, che con un gioco di parole non irresistibile lo definì “il più grande Frost da quello del 1709”, cioè quando da Londra a Palermo l’Europa fu unita dal gelo, con un crollo delle temperature di venti gradi, le navi intrappolate dal ghiaccio nel porto di Genova e il Lago di Garda pattinabile da cima a fondo.

Peccato che il Grande Frost pochi giorni fa abbia mollato il governo, indispettito dalla svolta “autoritaria” nella lotta al virus. La sua lettera di dimissioni è il grido di protesta di un liberal-liberista ostinato quanto può esserlo un inglese, e quindi allergico a controlli, lasciapassare e a tutto ciò che suona come mercanzia burocratico-poliziesca. Ma è al tempo stesso anche un colpo molto duro tanto al governo, il primo che in effetti la Brexit l’ha varata e la sta gestendo, quanto alla propria parabola politica, che salvo colpi di scena ristagnerà nel seggio a vita alla Camera dei Lord che la nomina a barone ha portato con sé. Un addio ancora più cocente e contraddittorio se si considera che sono imminenti – e si annunciano molto complessi – i negoziati sulla più importante delle intese rabberciate solo provvisoriamente per varare l’indipendenza britannica dal vecchio continente, cioè l’accordo sul transito delle merci fra le due Irlande.

E un voltafaccia, almeno secondo gli osservatori più severi, è l’elemento che ha contraddistinto la corsa all’Eliseo di Michel Barnier, il diplomatico francese incaricato dall’unione di negoziare clausole e compensazioni dell’accordo di divorzio Uk-Ue. In realtà più che di corsa bisognerebbe parlare di corsetta: l’avventura presidenziale di Barnier si è fermata alle battute iniziali, quando attraverso le primarie la destra gollista dei Républicains ha deciso di affidarsi a Valérie Pécresse per la sfida a Macron. Il ko per Barnier, liberal-conservatore da sempre e parlamentare per sette legislature, senza dubbio è bruciante. Ma l’uomo è elastico e sa rialzarsi, lo ha già fatto dopo la sconfitta al referendum francese sulla Costituzione europea. Quella volta perse ma era dalla parte giusta, o almeno coerente con il suo profilo. Stavolta non è andata così: l’uomo che ha rappresentato le posizioni e gli interessi dell’Ue nella trincea diplomatica più difficile, e che da sempre tiene sulla scrivania le foto di De Gaulle e Adenauer che si stringono la mano, per sedurre l’elettorato conservatore francese ha sfoderato una retorica antiUe imbarazzante. Non solo e non tanto quando ha proposto l’azzeramento di Schengen e un referendum sull’immigrazione, ma soprattutto quando ha teorizzato la riconquista della sovranità giuridica della Francia, per non sottostare più alle sentenze della Corte di giustizia Ue. Quel genere di affermazioni, per intenderci, che dette in ungherese o in polacco fanno invocare la procedura di infrazione. È questo cedimento al sovran-populismo, molto più della sconfitta alle primarie di un partito che probabilmente a sua volta perderà le presidenziali, che sembra destinato a seppellire Barnier. Senza neppure la consolazione di un leggio alla Camera alta o di un titolo nobiliare, ma giusto i diritti d’autore prodotti dal suo memoir sulle trattative con Frost.

Ma forse nel suo caso non c’è una maledizione della Brexit da incolpare. Forse la bizzarra parabola di Barnier dice soltanto che l’Europa è una dea gelosa, che non necessariamente fa la fortuna di chi la adora, ma può vendicarsi con crudeltà su chi la abbandona.

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