“Tu sei importante perché sei tu e sei importante fino alla fine”. Si può certamente partire da questa frase di Cicely Saunders, medico londinese, che ha dedicato tutta la sua carriera professionale alla cura dei malati terminali, per parlare di medicina palliativa di cui ancora, forse, si parla troppo poco.

La Saunders viene considerata la madre della medicina palliativa ed è stata lei che, nel 1967, ha fondato a Londra il St. Christopher hospice, il primo istituto di accoglienza per i pazienti terminali, e per le loro famiglie che, ancora oggi, è un punto di riferimento assoluto per tutti coloro che si occupano delle cure di fine vita.

SI fa riferimento alla Saunders anche nel testo “Non resistere, non desistere”, scritto da Lucio Romano, Massimo Gandolfini e Emanuela Vinai (edizioni Rubbettino) che può essere un valido aiuto alla riflessione nel momento in cui si parla di “fine vita”, un tema che nel Sulcis è diventato improvvisamente attuale quando, recentemente, un quarantacinquenne di Carbonia, affetto da Sla, ha chiesto di essere sottoposto alle pratiche di fine vita. Si è recato in Svizzera dove, al termine delle procedure e ai consulti medici che prevedono che i medici provino fino all’ultimo a far desistere il paziente, ha deciso di fare un passo indietro. “C’è ancora tempo”, ha detto a chi lo abbracciava per questa scelta della vita che lo ha riportato a casa, insieme agli amici che avevano scelto di accompagnarlo in questo difficile viaggio.

“Se è vero che l’istinto di sopravvivenza è una delle più tenaci forze naturali che cosa può spingere l’uomo a chiedere per sé l’eutanasia? – scrivono gli autori del libro, aggiungendo che “quando si tratta di inoltrarsi nel cuore e nella mente di un uomo, il problema si rivela sempre arduo, con il rischio di non valutare o di sottovalutare qualche elemento soprattutto di natura emotivo affettiva”. Ma una risposta va data perché trovarla può aiutare a tracciare un nuovo percorso da offrire a chi crede che non ci siano più strade da percorrere.

Gli autori delineano una serie di accadimenti subiti dal paziente che possono portare alla richiesta delle terapie di fine vita: sono la perdita dell’autonomia personale, la (presunta) perdita della propria dignità personale, il sentimento di solitudine e di abbandono, il senso di inutilità e di peso nei confronti degli altri: e poi c’è il dolore fisico, nemico assoluto, al quale si affianca una assurda sofferenza non solo fisica.

Non riuscire più a badare a se stessi e dipendere totalmente dagli altri in quanto non autosufficienti è una condizione devastante: “Genera un sentimento di assoluta inadeguatezza di vergogna che ferisce nel più intimo il senso di dignità personale – si legge nel testo - Ciò è accaduto in ogni tempo, ma tanto più oggi quando il trend culturale dominante fa dipendere la dignità dell’autonomia dall’autosufficienza, nell’affermazione della libertà assoluto dell’individuo da chiunque”.

La sensazione di essere diventati un peso quotidiano per familiari e amici, un problema senza soluzione, è anche questa una condizione capace di devastare anche la persona più forte: “Può cancellare ogni desiderio di lottare per la vita, invocando una morte che, pur continuando a far paura, rappresenta l’unico strumento per interrompere il lacerante ed estenuante sentimento di totale solitudine”. Dunque che fare? L’eutanasia è davvero l’unica soluzione al problema?

La camera di un hospice\u00A0Archivio L'Unione Sarda
La camera di un hospice\u00A0Archivio L'Unione Sarda
La camera di un hospice Archivio L'Unione Sarda

Cicely Sanunders griderebbe a gran voce che “no, non lo è”, e con lei una sempre più nutrita schiera di medici. Oggi la medicina palliativa ha fatto passi da gigante e la scienza sta raggiungendo ogni giorno insperati traguardi verso la cura delle malattie più disparate. Vietato mentire ai pazienti però: ci sono malattie per le quali – anche quando si può dominare il dolore fisico - ancora non si dispone di una cura. Malattie che portano a una condizione inimmaginabile di vita che però, è comunque vita. Chi decide che “quella vita” non è degna di essere vissuta deve, o quantomeno dovrebbe, essere messo in grado di valutare tutte le possibili alternative e, ancora più importante, è fondamentale che quelle possibili alternative siano messe a disposizione di tutti, al di là delle più disparate condizioni sociali ed economiche in cui il paziente si trovi a vivere. “Un’ampia gamma di farmaci trattamenti mini invasivi analgesici, interventi di neuro chirurgia antalgica rendono possibile il controllo del dolore fisico praticamente nella totalità dei casi. – scrivono Romano, Gandolfini e Vinai - ma certamente non esiste solo il dolore fisico o biologico, esiste un tipo di dolore tutto interiore e intimo”. Un dolore dell’anima che occorre imparare a riconoscere in modo da trovare gli strumenti per affrontarlo. Un dolore che non coinvolge solo il paziente, ma anche le persone che gli stanno attorno. Infatti quando si parla di medicina palliativa non ci si riferisce soltanto alla (preziosissima) terapia antalgica che permette di dominare il dolore, ma a tutte quelle “cure attive e complete dei pazienti in un momento in cui la malattia non risponde più ai trattamenti”. L’assunto da cui non si sfugge è che la morte è un processo normale: “Le cure palliative danno importanza al sollievo dal dolore ed altri sintomi, integrano gli aspetti fisici psicologici e spirituali della cura del paziente, offrono un sistema di assistenza al malato perché possa vivere in modo attivo fino alla morte e sono un sistema di sostegno alla famiglia per aiutarla ad affrontare la malattia e il lutto”. Una sorta di “terza via” contrapposta all’accanimento terapeutico o alla scelta del suicidio assistito. Una terza via che il paziente, restando ferma la sua assoluta libertà di scelta, deve poter essere messo in condizione di valutare in tutti i suoi elementi.

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