Il blitz che qualche giorno fa in Olanda ha messo in grande imbarazzo la Direzione nazionale antimafia italiana nasce da uno stato d’animo ormai quasi naturale negli investigatori: si chiama ossessione. Ed è diventata tale semplicemente perché sono trascorsi poco meno di 30 anni da quando Matteo Messina Denaro, 59 anni, l’ultimo boss di “Cosa nostra”, ha fatto perdere le sue tracce. Per questo la Procura di Trento, che seguiva un’indagine sul riciclaggio internazionale, ha dato il via libera all’operazione per catturare l’uomo più ricercato d’Europa che sedeva - stando agli investigatori -  a un tavolo del ristorante Het Pleidooi nel centro dell’Aja. Il procuratore Sandro Raimondi era certo, viste le informative della Guardia di finanza, che quell’uomo fosse Messina Denaro. E non un inglese di Liverpool in Olanda per assistere al Gran Premio di Formula Uno in compagnia del figlio e di un amico. Questo lo si scoprirà solo successivamente, nel frattempo, lo sventurato cittadino d’oltremanica finirà in carcere per qualche giorno sino all’esame del Dna e alla conferma del clamoroso errore. E in Italia, invece, le Procure di Trento e di Palermo (tenuta all’oscuro dell’operazione nonostante sia impegnata da anni nella ricerca della “primula rossa” di Castelvetrano) si scambiano poco delicate email. Inevitabile conseguenza di una sorta di frenesia e di smania, anche, nel voler arrivare prima degli altri, come se la cattura di un pericoloso latitante fosse una gara sportiva.

E’ vero, Matteo Messina Denaro non è uno qualunque. La sua lunga latitanza, che inizia esattamente nel 1993, ha già superato quella pur ragguardevole di Totò Riina (1969/1993) ma è ancora lontana dal record di Bernardo Provenzano (1963/2006). Sono dettagli che poco importano al “padrino”, nato tre decenni più tardi dei due corleonesi e che, essendo di una generazione diversa, non ha molto in comune con loro. Di sicuro, parlano le condanne, ha condiviso giusto la crudeltà - e alcune sentenze all’ergastolo -, avendo partecipato alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, in cui morirono i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli uomini della scorta, nonché agli attentati nel nord Italia del 1993.

Allora “u siccu” (il magro), così è soprannominato Matteo Messina Denaro da quando era ragazzino, aveva 30 anni ed era un giovane picciotto in ascesa nella gerarchia criminale. Figlio di don Ciccio, capo mandamento latitante di Castelvetrano – ucciso da un infarto nel 1998 e fatto ritrovare in campagna - Matteo era entrato nelle grazie del “capo dei capi”, di quel Totò Riina che aveva intravisto in lui intelligenza e senso pratico. Tanto che “zu Totò”, intercettato in carcere, lo chiamava “l’affarista” con toni quasi sprezzanti perché si occupava prevalentemente dei suoi interessi e si curava poco dei detenuti.

In effetti la definizione di Riina non era sbagliata. Messina Denaro, anche qui sono le inchieste che parlano, ha investito svariati milioni di euro nelle energie alternative (un impianto a lui riconducibile era stato messo sotto sequestro a Ploaghe) intestando le società a diversi prestanome, in particolare a Vito Nicastri, imprenditore di Alcamo conosciuto come il “re dell’eolico”. Grazie a lui, “u siccu” ha potuto usufruire di centinaia e centinaia di milioni arrivati in gran parte da finanziamenti dell’Unione europea. Ma Nicastri, nel 2019, è stato condannato a nove anni di carcere e parte del suo patrimonio miliardario è stato posto sotto sequestro. Senza scomporsi, il “signore del vento” entra in contatto con Paolo Arata, ex deputato di Forza Italia e ora nella Lega, per riprendere il filo del discorso energetico attraverso la politica (c’è un’inchiesta in corso).

In ogni caso, ciò che colpisce di Matteo Messina Denaro è la sua capacità di rimanere nell’ombra. Braccato da diversi anni, con fiancheggiatori, parenti e amici finiti in carcere per favoreggiamento, il boss continua a vivere in libertà, a spostarsi in Italia e all’estero, ma solo per poco tempo. Per tenere la situazione sotto controllo bisogna stare in Sicilia dove tutti sanno chi è anche se pochissimi intimi conoscono il suo volto. L’ultima sua fotografia risale a quando aveva vent’anni. Da uomo libero, l’unico contatto con le forze dell’ordine è datato 1988 quando venne convocato al Commissariato di Castelvetrano come testimone di un delitto – ovviamente, disse di non aver visto niente –, mai un’accusa né un’indagine nei suoi confronti. E nel 1993, dopo gli attentati di via dei Georgofili a Firenze, di via Palestro a Milano, di San Giorgio al Velabro e di San Giovanni in Laterano a Roma, che provocarono la morte di dieci persone, “u siccu” sparì.

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