L’idea è nata un mese fa, in occasione del 25 aprile: rappresentare l’inno nazionale, ma senza cantare a squarciagola come hanno fatto generazioni di alunni. Il virus ha silenziato le classi di tutta Italia – tra protocolli di sicurezza e mascherine – e così gli studenti del Nuovo Collegio della missione a Cagliari hanno imparato e riprodotto le strofe di Mameli con il linguaggio dei segni.

«Abbiamo unito l’educazione civica a quella musicale», racconta la professoressa Sabrina Vincis, mentre le sei classi delle scuole medie si esibiscono nel giardino dell’istituto, davanti agli alunni delle elementari e ai piccoli della scuola materna, «quest’anno non abbiamo potuto usare la voce per via delle norme anti Covid, così è nata l’idea del linguaggio “Lis”».

Inizialmente la reazione dei ragazzi alla proposta è stata tiepida, come ricorda la stessa docente, ma poi – col passare dei giorni – tutti si sono appassionati all’idea.

E ora tanti vogliono approfondire: «Durante l’estate verrà programmato un corso sul linguaggio dei segni», spiega la professoressa, «sia a me che agli studenti è piaciuto trovare una modalità di comunicazione diversa dal canto, che non si esprime con l’intonazione dei suoni ma attraverso il ritmo dei gesti. Se ci pensiamo bene ciò che rende diversi i due linguaggi è il viaggio che percorrono: i segni sfruttano il canale visivo, il canto quello uditivo, ma l’obiettivo è comune, cioè arrivare al destinatario. E con la rappresentazione di oggi», conclude la docente, «diventata realtà anche grazie alla collaborazione con i miei colleghi, abbiamo voluto dare anche un messaggio inclusivo».

La lingua dei segni permette alla comunità di non udenti di esprimersi e capire. È una vera lingua con una sua struttura e sintassi, spesso differente dall'italiano. Può avere similitudini con altre lingue. «I verbi ad esempio non si coniugano in base al tempo, ma devono concordare sia con il soggetto (come in italiano) sia con l'oggetto dell'azione, come avviene in basco», ricorda Wikipedia. «La concordanza di verbi, aggettivi e nomi non è basata sul genere (maschile e femminile come in italiano) ma sulla posizione nello spazio in cui il segno viene realizzato. Esistono diverse forme per il plurale "normale" e il plurale distributivo, distinzione sconosciute alle lingue europee, ma note in lingue oceaniche. Il tono della voce è sostituito dall'espressione del viso: c'è un'espressione per le domande dirette («vieni?», «studi matematica?») una per domande complesse («quando vieni?», «cosa studi?», «perché piangi?») una per gli imperativi («vieni!», «studia!»)», e così via.

E negli ultimi anni il linguaggio dei segni viene utilizzato per insegnare ai bambini a comunicare prima ancora di iniziare a parlare. Si accompagnano le prime parole con i gesti: «mangiare», «latte», «ancora».  Per insegnare questo linguaggio bisogna «parlare normalmente compiendo contemporaneamente i gesti del caso. Con il tempo il piccolo capirà il nesso tra espressioni parlate e segni e inizierà a servirsi a sua volta di questi ultimi», spiega il sito specializzato Baby Signs, senza che questo pregiudichi lo sviluppo naturale del linguaggio, anzi sembra che i bambini a cui sono stati insegnati i segni imparino a parlare prima e a due anni abbiano un vocabolario più ricco. E non a caso stanno fiorendo veri e propri corsi (curati da logopedisti) rivolti ai genitori. 


 

© Riproduzione riservata