Anche la sciagurata idea della Superlega calcistica ha fatto cose buone: perlomeno ha ricordato che, in una società occidentale spaccata su tutte le grandi scelte (l’accoglienza dei migranti, il ruolo delle tasse e così via), c’è almeno un valore che sembra raccogliere un consenso sostanzialmente unanime. È la meritocrazia, coralmente invocata per bocciare il progetto del torneo riservato alle squadre più ricche. Principio facilmente condivisibile, anche fuori dai campi sportivi (e infatti nel dibattito politico italiano è ormai un concetto trasversale agli schieramenti): è giusto premiare chi mostra più impegno e talento. Ma è davvero così scontato?

“Oggi la meritocrazia si è trasformata in un’aristocrazia ereditaria”, afferma Michael Sandel, il filosofo della Harvard University noto ormai quasi come una rockstar, per la grande capacità divulgativa con cui espone i suoi raffinati ragionamenti sul diritto, la giustizia, il bene comune. Da pochi giorni è disponibile la traduzione (curata per Feltrinelli da Corrado Del Bò ed Eleonora Marchiafava) del suo ultimo saggio, “La tirannia del merito-Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti”, che prolunga una serie già consistente di critiche avanzate da vari pensatori a questo principio in apparenza incontestabile.

Uno dei problemi è la difficoltà di capire chi sia davvero più meritevole. Il successo negli studi e nel mondo del lavoro, per esempio, è legato all’impegno dei singoli, ma anche alla loro educazione e istruzione, al contesto familiare, al benessere di cui hanno goduto. Il privilegio del censo inquina anche il discorso meritocratico. Nella retorica del sogno americano, chiunque lavori duro può fare di sé grandi cose. Ma Sandel fa notare che, tra quelli che nascono in famiglie collocate nella metà inferiore della classifica dei redditi, solo uno su venti raggiungerà nella vita la metà superiore. L’ascensore sociale sembra richiedere un’energica manutenzione.

E cosa dovrebbe esserci di più meritorio – sempre negli Usa – di una laurea in una delle università più prestigiose e difficili? Eppure anche qui conta soprattutto la ricchezza familiare: da quella famosa metà alta della graduatoria dei redditi provengono i due terzi degli allievi di Harvard e Stanford. Invece la metà bassa esprime meno del 4% degli studenti della Ivy League (gli otto atenei più elitari d’America): ne arrivano di più dall’1% più ricco, ossia con reddito medio annuo di almeno 630mila dollari. Certo, incidono anche le tasse elevate, ma appunto: poiché chi esce dalle università di grido avrà molte più probabilità di raggiungere impieghi con retribuzioni ragguardevoli, ecco che “l’aristocrazia ereditaria” di cui parla Sandel appare in tutta la sua evidenza.

Per altro, se è vero (se fosse vero) che chi merita ce la fa, è logico pensare che chi ce l’ha fatta lo ha meritato. Ma allora, anche chi non ce la fa merita in qualche modo il proprio destino: perché non si è impegnato abbastanza. Eppure tutti sappiamo che questo non è sempre vero. Proprio perché nella realizzazione di ciascuno incide il caso, perlopiù sotto la forma dell’estrazione familiare e delle opportunità avute. La cosa però non impedisce, a chi guadagna il top della scala sociale del censo e del prestigio, di dimenticare le proprie fortune e di guardare dall’alto in basso chi sta peggio. Il che genera sentimenti di umiliazione che, secondo Sandel, sono il combustibile della fiammata populista divampata negli ultimi anni in tutto l’Occidente. La logica del “se ti impegni ce la fai”, aggiunge lo studioso americano, annulla i sentimenti di solidarietà sociale, perché crea la convinzione che ogni individuo sia artefice della propria sorte.

In Italia, uno dei più convinti crociati contro la falsa meritocrazia è Vittorio Pelligra, docente di politica economica all’Università di Cagliari. Nella sua rubrica #MindTheEconomy, sul Sole 24 Ore, ha ricordato che il termine stesso nasce in senso dispregiativo, coniato nel 1958 da Michael Young per criticare il sistema educativo inglese che, all’epoca, già in età precoce orientava i ragazzi verso carriere brillanti e intellettuali oppure verso lavori manuali poco remunerati. “Io non contesto il principio del merito in sé”, chiarisce il professore: “Ciascuno di noi, se deve farsi operare, vorrebbe il chirurgo migliore. Io contesto la retorica della meritocrazia, che identifica il merito con i risultati: i quali dipendono da molti elementi, non solo da impegno e talento”.

Un esempio calzante è la discussione di questi giorni sul cosiddetto curriculum dello studente, che – in virtù di un’ordinanza del ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi – sarà valutato in occasione della maturità 2021. Vi rientra ogni esperienza formativa extrascolastica: “Sarà avvantaggiato – obietta Pelligra – chi è cresciuto in famiglie che hanno potuto pagare corsi di inglese, vacanze-studio all’estero e simili. Di fatto, la scuola pubblica certifica la biforcazione tra chi ha certi mezzi e chi no”.

Il saggio di Sandel ricorda che l’eccessivo accento sulla meritocrazia nasce con le filosofie ultraliberiste degli anni ’80 (Reagan, Thatcher), ma viene poi fatto proprio dai democratici Clinton e Obama, e in Europa dal laburista Blair. In Italia, riflette Pelligra, il blairismo è rappresentato soprattutto da Matteo Renzi: “L’ex ministra Teresa Bellanova ha affermato che il merito è di sinistra. Ma questo ragionamento conduce a una legittimazione morale delle disuguaglianze: se chi si impegna ce la fa, non è necessario che la politica attui azioni sistemiche per ridurre la disuguaglianza. La realtà però è diversa: se non ce la fai, non è detto che sia colpa tua”.

I leader della sinistra americana, osserva Sandel, parlano di “pari opportunità”, concetto ignorato da Trump nella sua vittoriosa campagna elettorale del 2016 (e anche da Bernie Sanders, considerato da Sandel un populista di sinistra). Invece, interviene ancora Pelligra, nel dibattito pubblico bisognerebbe riprendere a parlare di contrasto alle disuguaglianze: “Si è visto che non funziona l’ideologia del trickle-down, il cosiddetto sgocciolamento”, ossia la convinzione che favorire economicamente i ceti più abbienti, per esempio riducendo le tasse sulle grandi imprese, porti benessere anche alle fasce sociali meno benestanti: “Si è capito che la ricchezza genera ricchezza, per cui chi era ricco lo è diventato ancora di più ed è aumentato il divario con chi sta peggio. Negli Stati Uniti è stato attuato tempo fa un interessante esperimento sociale, “Moving to Opportunity”: a un gruppo di famiglie fu data una casa popolare, a un altro un voucher per procurarsi un alloggio, a un terzo un voucher ma utilizzabile solo in quartieri meno poveri. È emerso che i migliori risultati, in termini di riduzione della devianza, titoli di studio e inserimento nel mondo del lavoro, si sono avuti per le famiglie trasferite in quartieri migliori, ma con figli ancora molto piccoli. Questo induce a pensare che la politica debba investire per dare maggiori opportunità soprattutto ai bambini, ai nuclei familiari con figli nei loro primi anni di vita”. Gli interventi successivi rischiano di arrivare quando ormai la competizione è già alterata, e il presunto merito dei vincenti si rivela il risultato bugiardo di una gara falsata. Peggio della Superlega.

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