L’eco della sua ultima battaglia risale a una decina di giorni fa, quando si è scandalizzato per la decisione degli Indians di Cleveland di cambiare nome in Guardians per rispetto verso i nativi americani. “È una disgrazia, una vergogna – ha tuonato Donald Trump - alla fine la gente non ne potrà più”. Poi le parole che nelle sue intenzioni dovrebbero chiudere la questione una volta per tutte: “Posso assicurare che la gente più arrabbiata sono proprio gli indiani del nostro Paese, per loro avere una squadra col loro nome era un onore”.

Anche se Donald Trump non fosse allergico alla verità (Fact Checker, il database del Washington Post, ha contato 30.573 sue affermazioni false o fuorvianti durante il mandato presidenziale) sarebbe legittimo dubitare che gli “indiani” fossero felici di avere una squadra con questo nome, e più in generale è difficile che amino essere definiti con quell’etichetta da film western. Ma per quanto il cambio di nome della squadra sia un argomento di attualità, e per quanto la battaglia contro la “cancel culture” che cambia i nomi scorretti e abbatte le statue dei generali sudisti sia molto nelle corde di Trump, ci sono tre elementi che non fanno pronosticare un grande seguito di opinione all’ultima sparata di The Donald, e invece fanno immaginare una sua capacità sempre più fievole di incidere nel dibattito nazionale.

Le prime due le indica in un articolo di David A. Graham pubblicato su Atlantic e riproposto in Italia da Internazionale: “Innanzitutto è probabile che i mezzi d’informazione abbiano finalmente cominciato a imparare la lezione evitando di dare risalto alle sue provocazioni più aggressive e futili. Poi bisogna tenere presente che la sua capacità di controllare le notizie dipendeva dal lanciare provocazioni sempre più colossali. Una volta che hai provato a ribaltare un’elezione presidenziale non c’è più molto spazio per aumentare la posta in gioco”. In sostanza, “è innegabile che l’ex presidente sia rimasto piuttosto ai margini dopo aver lasciato la Casa Bianca. Non è solo una sensazione. Di recente Philip Bump, del Washington Post, ha rivelato che le ricerche su Google e le immagini trasmesse dalla tv via cavo su Trump sono tornate ai livelli precedenti alla sua candidatura. Solo le citazioni nei notiziari delle tv via cavo restano numerose, ma anche quelle sono in calo”.

Ma c’è un terzo motivo se nei prossimi giorni e mesi il discorso pubblico sarà meno condizionato dai temi e dagli accenti trumpiani. Ed è che saranno i suoi avversari a imporre all’ex presidente la loro agenda, costringendo ancora una volta sulla difensiva l’unico comandante in capo che ha dovuto affrontare due processi per impeachment, e ne è uscito indenne.

Il primo guaio arriva dalla commissione d’inchiesta sull’invasione di Capitol Hill del 6 gennaio. I repubblicani hanno cercato come hanno potuto di boicottare l’organismo ma ormai – grazie ai due repubblicani anti-Trump Liz Cheney e Adam Kinzinger – l’inchiesta parlamentare su quel conato eversivo è cominciata, e non porta a nulla di buono per l’ex presidente. Anche un ultrà della destra più accesa potrebbe sentirsi a disagio davanti alle testimonianze degli agenti della Capitol Police che raccontano in lacrime di essere stati assaliti, disarmati, colpiti, tormentati col taser e minacciati di morte da uomini che urlavano “Ci manda Trump”.

Il secondo guaio è sempre in ambito parlamentare. Contrariamente a quando aveva fatto finora, il Dipartimento di Giustizia ha autorizzato l’agenzia delle entrate Usa (l’Internal Revenue Service) a consegnare al Parlamento le dichiarazioni dei redditi di Donald Trump. L’accesso a quei documenti era stato definito dalla speaker della Camera, Nancy Pelosi, una “questione di sicurezza nazionale”. Sia chiaro: le disinvolture fiscali di Trump e della sua organizzazione non sono un colpo di scena: già durante la campagna elettorale del 2020 il New York Times rivelò che nel 2016, anno della sua vittoria elettorale, Trump versò appena 750 dollari di tasse federali e lo stesso fece nel 2017, ma soprattutto per dieci dei quindici anni precedenti non aveva pagato un dollaro. Eppure la consegna delle sue riservatissime dichiarazioni dei redditi può comunque metterlo in difficoltà, e non poco. Intanto perché è lo stesso materiale su cui indaga da tempo la Procura di Manhattan, che ora ha deciso di chiedere il suo rinvio a giudizio, e quindi i Democratici leggeranno riga per riga quei moduli sapendo già che secondo gli inquirenti trasudano frodi e inesattezze dolose. Ma soprattutto perché quella documentazione contabile potrebbe attestare che Trump è molto meno facoltoso di quel che ha sempre sostenuto. E per un uomo che ha già perso il potere esecutivo, la possibilità di usare i social e l’immagine vincente, passare per un fanfarone ricco solo di fantasia sarebbe devastante.

Certo, al momento gli resta un controllo ferreo sul partito repubblicano, del tutto insolito per un candidato sconfitto. Ma il perno di questa sua leadership è la Grande Fandonia delle elezioni rubate da Biden: se è vero che molti elettori repubblicani la appoggiano o comunque la accettano, sarà impossibile tenere alto questo livello di mobilitazione, anche solo sul piano psicologico. Come riassume Graham, prima o poi i suoi fan “incasseranno la sua sconfitta come la dimostrazione che la politica è condannata, e scivoleranno nell’apatia e nel disimpegno. Per altri la sconfitta lo rende automaticamente un perdente, e questo è particolarmente dannoso considerando quanto Trump odi i perdenti. Queste persone cercheranno un altro eroe”.

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