Qualche settimana fa il ricordo di Giovanni Falcone, poi Paolo Borsellino, i due magistrati uccisi dalla mafia negli attentati di Capaci e di via D’Amelio trent’anni fa insieme agli agenti delle rispettive scorte. Per certi versi, nella loro drammaticità, quegli episodi hanno rappresentato il primo vero punto di svolta nella lotta dello Stato contro la criminalità organizzata, in particolare nei confronti di Cosa nostra, sino a quel momento una delle più strutturate e importanti mafie del pianeta. Sei mesi dopo, infatti, finì la lunga latitanza (24 anni) di Totò Riina, il sanguinario “capo dei capi” che quelle stragi aveva fortemente voluto. Quindi, negli anni successivi, le manette scattarono per Leoluca Bagarella, cognato di Riina, Nitto Santapaola, Giovanni Brusca, Raffaele e Calogero Ganci e tanti altri ancora. Una reazione eccezionale, mai vista in precedenza.

Ma c’era davvero bisogno di quelle stragi perché si cominciasse a prendere sul serio la pericolosità della mafia siciliana?

<Evidentemente sì, del resto è la stessa storia che ce lo insegna. Lo Stato negli anni ha sempre mostrato un certo disinteresse alla mafia. Non un disinteresse colposo, sia chiaro, ma proprio un disinteresse colpevole. Non si voleva disturbare i manovratori, diciamo che era un disinteresse interessato. Nella storia della mafia è andata così: ci sono stati gli omicidi eclatanti, il sangue e solo a quel punto lo Stato ha pensato di reagire. Nel 1992 la reazione è stata dura perché duro era stato l’attacco lanciato da Cosa nostra>.

L’osservazione è di Francesco La Licata, 75 anni, cronista di nera a “L’Ora” e poi a “La Stampa” di Torino, autore di diversi libri sul tema, tra gli altri “Don Vito”, sull’ex sindaco di Palermo e sulle sue relazioni pericolose con la politica, “Storia di Giovanni Falcone”, “Pizzini, veleni e cicoria” sulla estenuante caccia al latitante Bernardo Provenzano. La Licata è uno dei giornalisti italiani più influenti e autorevoli ad aver raccontato Cosa nostra e le sue dinamiche interne negli ultimi decenni, quelli che hanno caratterizzato l’ascesa dei feroci corleonesi guidati da Riina e, anche, il declino del clan, decimato dagli arresti e ridotto ai minimi termini dal 41bis, il carcere duro inflitto a tutti i boss.

Già, il 41 bis, argomento principe – ma non il solo – della richiesta di trattativa avviata dalla mafia per indurre lo Stato a scendere a patti.

<Era uno dei punti del cosiddetto “papello”. Cosa nostra chiedeva che venisse abolito, così come l’ergastolo per i mafiosi. L’altra richiesta era una revisione sostanziale delle leggi sui collaboratori di giustizia. In cambio i corleonesi si impegnavano a smetterla con gli attentati. Queste tre richieste, erano dieci in totale, sono significative dello scontro in atto in quel periodo>.

Fortunatamente non ci fu alcuna concessione.

<Sì, perché nel ’92, per la prima volta, si registrò una fortissima reazione della società civile e lo Stato non poté agire diversamente. Dopo la morte di Borsellino, alcune donne palermitane fondarono il “Comitato dei lenzuoli” che rappresenta una tappa fondamentale della reazione: i siciliani dissero basta alla mafia. E lo Stato dovette adeguare la sua risposta>.

Cosa accadde?

<Hanno preso i latitanti, utilizzando gli strumenti legislativi creati da Falcone e Borsellino. Hanno cominciato a sequestrare i beni dei mafiosi, un’altra rivoluzione, prima non lo si era mai fatto. Il reato di associazione mafiosa prima del 1982 non esisteva, la conseguenza devastante per i criminali è che questa norma ha consentito il sequestro dei patrimoni illegali e la loro confisca. Ecco perché sono morti Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa. La novità è che non è necessario che tu commetta un reato ma è sufficiente appartenere a Cosa nostra per beccarti 16 anni di carcere. E in ogni caso, non dimentichiamoci che senza i collaboratori sarebbe stato tutto più difficile e complicato>.

Tu che l’hai conosciuto, chi era Giovanni Falcone?

<Giovanni era un uomo eccezionale e fuori dal comune. Uno stratega. Quando andò al ministero della Giustizia, pur privato della sua notevole e indiscussa qualità di investigatore, ha messo su dei provvedimenti che miravano a stremare Cosa nostra. Aveva una visione d’insieme straordinaria, collaborava con l’Fbi con cui intratteneva uno speciale rapporto ed era stimatissimo dagli americani>.

Che fine ha fatto Cosa nostra?

<Sta cercando di riorganizzarsi. Quantomeno qualcuno ci sta provando ma non ci sono quadri all’altezza. Si può affermare che c’è stato un degrado qualitativo nell’organizzazione. Ma è chiaro che sarà sempre presente nel territorio per gestire le estorsioni, i piccoli appalti, una micro economia necessaria a pagare le mensilità a chi sta in carcere, le parcelle degli avvocati. Certo, di tanto in tanto alcuni tentano di insinuarsi negli appalti delle opere pubbliche per trovare entrate più consistenti, finora però i risultati sono stati scadenti. Le cose potrebbero cambiare ma ci vorrebbe qualche intervento, come dire, internazionale. I legami con le famiglie americane non sono più quelli di una volta, gli stessi figli dei grandi boss che dettavano legge negli Usa ora fanno gli avvocati e non sembrano avere alcuna intenzione di riprendere le attività dei padri. E poi c’è la ‘Ndrangheta, che ha liquidità da far paura e che controlla gran parte del mercato mondiale della droga>.

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