Anche a 14 anni di distanza dalla sua morte, anche dopo gli atti ufficiali che gli hanno riconosciuto onori postumi, Peter Norman resta "the forgotten man". L'uomo dimenticato. Era l'unico bianco su quel podio olimpico che, nel 1968, divenne il palcoscenico della più famosa protesta politica in occasione di un evento sportivo: i pugni al cielo degli sprinter neri Tommie Smith e John Carlos.

Un'immagine diventata subito storica, e logicamente rievocata in questa estate 2020 dopo il clamoroso sciopero dei giocatori di basket della Nba (imitati dagli atleti di varie altre discipline sportive) come testimonianza contro le violenze della polizia Usa nei confronti degli afroamericani. Ma Norman resta invisibile. Ignorato anche da queste rievocazioni. Eppure per il coraggio dimostrato su quel podio si era bruciato una carriera sportiva, e forse le opportunità di un'esistenza più facile nel suo Paese, l'Australia.

Quel 16 ottobre del 1968, prima della finale dei 200 metri, pochi si aspettavano che Peter Norman finisse tra i primi tre. Forse neppure lui. Smith e Carlos, invece, avevano praticamente le medaglie già in tasca. Tanto che qualcuno, prima ancora della gara, iniziava già a chiedersi quale gesto clamoroso avrebbero potuto attuare, durante la premiazione, per portare avanti la loro lotta per i diritti civili. Facevano parte dell'associazione Olympic Project for Human Rights (Ophr), ed erano stati addirittura sul punto di boicottare le Olimpiadi. Uno dei motivi era la mancata esclusione dai Giochi di due Paesi che praticavano l'apartheid verso la popolazione nera, il Sudafrica e la Rhodesia. Norman invece no, non era noto come attivista. Però era cresciuto nel mondo dell'impegno sociale; vedeva anche lui con amarezza che nella sua Australia sussistevano discriminazioni di stampo razzista ai danni degli aborigeni, privati dei comuni diritti di cittadinanza. E a volte dei loro affetti più cari: i figli nati da matrimoni misti venivano spesso sottratti appena nati ai veri genitori per essere dati in adozione a famiglie bianche, o allevati negli orfanotrofi. Norman era bianco, ma non insensibile alle rivendicazioni delle etnie discriminate. Quando lo sparo diede il via alla finale dei 200 metri olimpici, scattò come un fulmine senza pensare a nient'altro, e a sorpresa riuscì a superare John Carlos e ad aggiudicarsi la medaglia d'argento, a pochi centesimi di secondo di distacco dall'imprendibile Tommie Smith. Ma subito dopo la gara, pur con tutta l'emozione per la sua impresa sportiva, decise di dare anche lui la sua testimonianza per i valori in cui credeva.

Incrociò un altro atleta americano, un canottiere, Paul Hoffman. Bianco, ma aderente all'Ophr. Gli chiese una spilla dell'organizzazione. "Ne avevo solo una", ricorderà Hoffman anni dopo, "ma mi sembrava giusto che lui l'avesse. E così gliel'ho data". Mentre Smith e Carlos, sul podio, chinarono il capo durante l'inno americano, sollevando il pugno dentro un guanto nero, la partecipazione dell'atleta australiano alla protesta si limitò a questo: una spilla sulla tuta, che quasi nessuno notò, a fronte del gesto dei due velocisti statunitensi. (A dire il vero, tempo dopo si seppe che Norman aveva avuto anche un altro ruolo: poiché i suoi due "colleghi" avevano portato un solo paio di guanti neri, fu lui a suggerire di indossarne uno ciascuno, contribuendo così a definire la coreografia di quella scena simbolo, con Smith che alza la mano destra e Carlos la sinistra). Ma quella spilla, che per molti passò inosservata, non lo fu da parte del Comitato olimpico australiano. Per Tommie Smith e John Carlos la sanzione fu immediata: espulsi dal villaggio olimpico e dalla delegazione del loro Paese, su pressione insistente del presidente del Cio Avery Brundage. Lo stesso che nel 1936, quando guidava il Comitato olimpico Usa, si era rifiutato di boicottare le Olimpiadi nella Germania di Hitler e aveva ritenuto ammissibile il saluto nazista, perché in quel momento era di fatto un saluto nazionale: mentre non lo era, disse, il gesto del pugno sollevato dai due medagliati americani di Città del Messico. Invece Peter Norman non ricevette lì per lì alcuna punizione. I guai sarebbero arrivati al rientro in patria. Pur essendo in quel momento il velocista australiano più forte di sempre (e lo sarebbe rimasto per decenni), venne di fatto messo ai margini.

L'umiliazione più pesante arrivò per lui quattro anni dopo: pur avendo fatto segnare in molte gare preolimpiche il tempo minimo richiesto per partecipare ai Giochi di Monaco del 1972, sia nei 200 metri che nei 100, la sua Federazione decise di non portarlo in Germania. E dire che, se avesse ripetuto il tempo che gli era valso l'argento in Messico (20 secondi e 6 centesimi, tuttora il record continentale per l'Oceania), Norman a Monaco avrebbe vinto la medaglia d'oro. Non si pentì mai del suo gesto. "Credo che gli uomini nascano uguali e debbano essere trattati come tali", ribadirà. Ma dopo la delusione della mancata convocazione olimpica, a 30 anni, il ritiro dalle competizioni fu una decisione praticamente obbligata. Il Comitato olimpico australiano ha sempre negato, anche molti anni più tardi, che l'esclusione dai Giochi di Monaco fosse una punizione per il suo comportamento sul podio di Città del Messico. Sta di fatto che, come alcuni ebbero modo di dire, fu "trattato come un paria" nel suo stesso ambiente sportivo. Si trovò un lavoro come insegnante di educazione fisica, condusse una vita semplice e riservata. Ma anche le Olimpiadi di Sydney del 2000 gli causarono un dolore. Pur essendo coinvolto in alcuni eventi preparatori a Melbourne, dove viveva, non venne invitato ad assistere alla cerimonia inaugurale né ad alcuna gara nella città sede dei Giochi. "Non potevamo permetterci di pagare il viaggio per Sydney a tutti gli atleti olimpici australiani", fu la spiegazione del comitato organizzatore.

Ci pensarono però gli Usa a farsi carico delle spese per portare Norman a Sydney, una volta saputo che non lo facevano gli australiani. Questa non fu del resto l'unica occasione in cui l'atleta bianco fu più apprezzato dagli americani che dai propri connazionali. Rimase sempre in contatto con Tommie Smith e John Carlos, che più volte si espressero sul suo conto con parole di grande affetto e riconoscenza, per quella solidarietà ricevuta sul podio del 1968. E quando Peter Norman morì per un attacco di cuore a 64 anni, nell'ottobre del 2006, entrambi volarono a Melbourne per il funerale, durante il quale portarono sulle spalle la bara del loro amico e pronunciarono elogi funebri in suo onore. Il 9 ottobre, data delle esequie, è stato proclamato Peter Norman's Day dalla federazione Usa di atletica. Solo nel 2012 il Parlamento australiano ha approvato una mozione che riconosce il grande valore del risultato sportivo ottenuto dall'atleta alle Olimpiadi del 1968, il suo coraggio per aver indossato sul podio la spilla dell'Olympic Project for Human Rights, il suo ruolo nella difesa dei diritti civili; e inoltre gli porge scuse postume "per il trattamento ricevuto dopo il suo ritorno in Australia". Oggi gli Stati Uniti conoscono una nuova ondata di manifestazioni e iniziative contro la discriminazione razziale, nata con l'omicidio di George Floyd a Minneapolis, il 25 maggio, da parte di un poliziotto. Il movimento che afferma che "Black lives matter", le vite dei neri contano. Il 23 agosto a Kenosha (Wisconsin) un altro nero, Jacob Blake, è rimasto paralizzato dopo essere stato colpito più volte nella schiena dagli spari degli agenti, mentre cercava di salire sull'auto dove lo aspettavano i suoi tre figli. La rabbia è montata di nuovo nel Paese, e i cestisti della Nba hanno avviato l'inedita protesta che per qualche giorno ha fermato praticamente tutto il grande sport americano. Ben pochi, richiamando alla memoria il precedente di Smith e Carlos, si sono ricordati del "forgotten man" che era con loro su quel podio. I neri sono i grandi protagonisti di questa lotta, ma a dire che le loro vite contano si sono uniti molti bianchi. Peter Norman, se ci fosse ancora, sarebbe uno di loro.
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