La storia del piccolo Edgardo Mortara, oramai dimenticata, era riemersa nel 2000, quando, in occasione della beatificazione di papa Pio IX a opera di Giovanni Paolo II, la sua vicenda umana fu passata alla macelleria dei commentatori di destra e sinistra, e raccontata da saggisti e romanzieri. Si è tornati a parlarne oggi sull’onda di “Rapito”, il film di Marco Bellocchio presentato al festival di Cannes. Un’opera che racconta la violenza subita dal bambino ebreo di sette anni battezzato di nascosto da una domestica cattolica e sottratto dall’Inquisizione ai suoi genitori per essere educato alla fede cattolica. Una vicenda - inquadrata in un momento storico in cui il potere temporale della Chiesa era prossimo alla fine - che mette in luce lo scontro tra un Papa-re deciso a difendere le leggi del diritto canonico e della fede, e le idee liberali e risorgimentali che di lì a poco (con la breccia di Porta Pia nel 1870) avrebbero cancellato i domini dello Stato pontificio. Il rapimento del piccolo, affidato a un istituto e subito preso da Pio IX sotto la sua ala protettrice, sollevò in tutta Europa e in America un’ondata di indignazione, ma il Papa chiuse la questione con il suo «Non possumus», dichiarando in pratica di non poter fare diversamente perché il battesimo aveva fatto di Edgardo un cristiano, che, come tale, doveva essere educato secondo la dottrina cattolica. La Chiesa, disse, aveva il dovere morale di preservare il ragazzo dalla caduta nel Limbo.

La storia

Edgardo, nato nell’agosto 1851, era il primogenito degli otto figli di Marianna Padovani e di Momol Mortara, commerciante ebreo di attrezzi da tappezzeria con un bel negozio in centro a Bologna. La sera del 23 giugno del 1858, quando il bambino aveva sette anni, i soldati bussarono alla porta e lo portarono via. «Loro sono vittima di un tradimento», aveva spiegato il maresciallo ai genitori increduli. «Il loro figlio Edgardo è stato battezzato e io ho l’ordine di condurlo meco». Non valsero a nulla le proteste e la disperazione di Marianna e di Momol, l’indignazione della comunità ebraica del Regno di Sardegna, né lo scandalo internazionale che bollava lo Stato pontificio come anacronistico e crudele.

L’acqua del secchio

Come mai, senza che i genitori ne sapessero niente, Edgardo aveva ricevuto il battesimo? La colpevole era una domestica quindicenne, di fede cattolica, che anni prima, quando il bambino aveva diciassette mesi, lo fece cristiano bagnandolo con l’acqua del secchio. Il bambino era stato colpito da una grave forma di neurite, e lei, credendolo in pericolo di morte, pronunciò la formula del sacramento all’insaputa dei genitori. Il piccolo guarì e Anna Morisi, così si chiamava la ragazza, se ne dimenticò finché - forse per un’incauta confidenza fatta a un’amica - la storia arrivò al Sant’Uffizio di Bologna. Va detto che le leggi dello Stato pontificio vietavano alle famiglie ebree di avere in casa domestici cattolici: una regola (poco osservata) che serviva anche per evitare casi come quello di Edgardo. Altro divieto stabilito dalla Chiesa era il battesimo dei minori impartito senza il consenso dei genitori, salvo i casi dei bambini esposti (cioè abbandonati) o in punto di morte.

Può accadere ancora?

Era, quest’ultimo, il caso di Edgardo Mortara. Una storia che alla nostra sensibilità moderna può sembrare lontana anni luce, ma che poggiava su una prescrizione presente ancor oggi nel codice di diritto canonico: in pericolo di morte, la Chiesa battezza validamente e lecitamente il bambino anche contro la volontà e il consenso dei genitori. Un caso Mortara, tuttavia, oggi non potrebbe più ripetersi. «Perché la libertà religiosa sancita dal Concilio Vaticano II ha contribuito a cambiare prospettiva», ha sottolineato l’Osservatore Romano. «I credenti vivono la stessa fede con una diversa coscienza, come dimostra il significativo cambiamento sulla pena di morte, un tempo praticata anche dallo Stato Pontificio e oggi dichiarata inammissibile nel Catechismo della Chiesa cattolica dopo un cammino di riflessione inaugurato da Giovanni Paolo II e concluso da Francesco».

Don Pio Maria

Edgardo non si riavvicinò più ai suoi genitori (se non, da adulto, per cercare di conventirli) e appena ventiduenne, nel 1873, ricevette l’ordinazione sacerdotale con il nome di Pio Maria. Morì nel 1940, a 89 anni, in un monastero in Belgio. È aperto il dibattito tra chi gli riconosce una vocazione sincera e libera, e chi invece - come Elèna Mortara, la cui bisnonna era sorella di Edgardo - ha parlato di «un evidente caso di sindrome di Stoccolma». «Segregato e indottrinato dai sette anni in poi perché diventasse sacerdote, aveva sviluppato il tipico attaccamento del prigioniero verso i suoi carcerieri che si osserva a volte anche nelle vittime adulte dei sequestri. E aveva visto in Pio IX una figura paterna, sviluppando un forte senso di colpa per “i dolori immensi” che, secondo quanto gli veniva ripetuto dallo stesso rapitore, pensava di avergli arrecato attirandogli contro tante polemiche».

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