Una strage senza colpevoli, la giustizia sacrificata alla ragion di Stato, alla “dottrina Moro”, imposta per evitare che i terroristi islamici pianificassero azioni nel nostro Paese. Una strategia che però potrebbe avere provocato altre stragi, come quella di Bologna anche se le verità processuali emerse di recente dicono qualcosa di diverso. La strage di Fiumicino di 50 anni fa, esattamente del 17 dicembre 1973, è un po’ di tutto questo. E il recente incontro tra i familiari delle vittime, grazie anche alla giornalista Michela Chimenti che in un podcast, dal titolo “Una mattina a Fiumicino”, ha messo insieme la storia dell’attentato terroristico con il racconto dei parenti di chi venne ucciso dalle bombe e dal piombo dei fedayyn, permette ancora una volta di ricordare una pagina triste della nostra Repubblica, una pagina che non si è ancora chiusa dal punto di vista della giustizia, perché nessuno ha pagato.

La storia

Erano circa le 13 del 17 dicembre del 1973 quando, in un affollato aeroporto di Fiumicino in cui si muovevano già le tante persone che si accingevano a prendere un aereo in vista delle vacanze di Natale, un commando di cinque palestinesi fece irruzione e creò il terrore nello scalo, dopo essere atterrati in Italia con un aereo proveniente dalla Spagna. Il gruppo di fedayyn entrò in azione nelle sale dell’aeroporto sparando raffiche di mitra e prendendo in ostaggio sei agenti, tra cui il sardo di Dorgali Mario Muggianu che stava per terminare il suo turno alla Polizia di frontiera. Poi lanciarono esplosivi all’interno di un Boeing 707 diretto a Teheran con i passeggeri già a bordo. I giornali e le televisioni di tutto il mondo trasmisero le immagini dell’aereo avvolto dal fumo. I morti furono 32, tra cui anche un giovane finanziere appena ventenne, Antonio Zara, che tentò di opporsi ai terroristi cercando di sorprenderli durante la loro azione. Fu invece raggiunto da una raffica di mitra alla schiena e non ebbe scampo. Così come non ebbe scampo Domenico Ippoliti, tecnico aeronautico in servizio a Fiumicino, preso in ostaggio e trucidato ad Atene, dove l’aereo dirottato dai terroristi atterrò qualche ora più tardi e dove, per fare pressione sulle autorità locali, i fedayyn iniziarono con le persone sequestrate il tragico gioco della roulette russa. Il suo corpo venne poi buttato sulla pista e l’aereo ne fece sfregio passandoci sopra al momento del decollo alla volta di Kuwait City, dove gli ostaggi vennero infine liberati e i terroristi arrestati. Ma il lieto fine, che lieto non può essere visti di 32 morti lasciati sul campo nel corso dell’azione criminale, si trasformò ben presto in una beffa: i terroristi furono in seguito liberati in Kuwait e mai processati in Italia, come hanno ricordato anni fa anche Salvatore Lordi e Annalisa Giuseppetti, giornalisti e autori del libro “Fiumicino 17 dicembre 1973. La strage di Settembre Nero”, pubblicato da Rubettino nel 2010. Un libro ricco di documenti e testimonianze che ricostruiscono la drammatica vicenda di quel giorno.

I fatti

A dare una mano a ricostruire i fatti, raccontati dai due giornalisti Lordi e Giuseppetti, anche la testimonianza di Mario Muggianu, all’epoca della strage poco più che diciannovenne, giovane agente di pubblica sicurezza nativo di Dorgali, in servizio appunto a Fiumicino il 17 dicembre del 1973, finito poi tra gli ostaggi del commando di Settembre Nero. Come raccontò Muggianu all’Unione Sarda nel 2010, quel tragico giorno segnò l’esistenza di molte persone e tante famiglie. Proprio la mattina del 17 dicembre, mentre i fedayyn palestinesi si imbarcavano su un volo diretto a Roma nell’aeroporto di Barajas, si apriva il processo contro tre appartenenti a Settembre Nero, organizzazione terroristica palestinese, che nel gennaio di quell’anno furono arrestati in occasione della visita in Italia di Golda Meir, primo ministro israeliano. A Ostia, forse su segnalazione del Mossad, vennero fermati cinque palestinesi trovati in possesso di missili Strela di fabbricazione sovietica che dovevano servire per tirare giù l’aereo del primo ministro israeliano (sono passati 50 anni ma i corsi e ricorsi della storia ci riportano sulla stessa area di crisi, Israele e la Palestina). Dei cinque, due furono scarcerati mentre gli altri tre finirono a processo e vennero condannati nel febbraio del 1974, ma poi il pagamento di una cauzione da venti milioni di lire da parte dei servizi segreti li fece uscire dal carcere e sparirono in Libia appena un mese dopo.

Dopo aver seminato il terrore all’interno dell’aerostazione, prendendo diversi ostaggi, tra cui l’agente Mario Muggianu, il commando riuscì a raggiungere un Boeing della Pan Am in procinto di decollare. Dopo essere saliti a bordo, due terroristi fecero esplodere bombe al fosforo dentro l’aereo. “Non sapevano dove andare. La mia impressione è che non avessero alcuna meta anche se forse il loro scopo era quello di piombare a Ginevra e far atterrare il terrore sulla conferenza di pace che si apriva in quei giorni in Svizzera”, raccontò nel 2010 Muggianu all’Unione Sarda. Il volo sorvolò Nicosia (Cipro), poi fece rotta su Atene, dove si aprì una drammatica trattativa con le autorità greche. Fu qui che i terroristi inaugurarono la strategia della roulette russa. “Ero ammanettato con uno steward, ci portavano a due a due sulle scalette dell’aereo e sparavano a pochi metri dalla nostra testa. Poi ci riportavano indietro. Ci contammo, per vedere se c’eravamo tutti. Ippoliti non tornò”. Alla fine l’aereo ripartì da Atene e, dopo varie peripezie, atterrò in Kuwait. Fu qui che i terroristi si arresero, forse in seguito a un salvacondotto concesso loro dalle autorità locali, mentre gli ostaggi italiani furono raggiunti subito dalle rappresentanze diplomatiche. Muggianu riuscì addirittura a parlare per primo con l’allora presidente del Consiglio Mariano Rumor. Il messaggio del governo e del capo della Polizia di allora, il sardo di Talana, Efisio Zanda Loi, fu chiaro: bocche cucite.

Nessun giustizia

Allo stesso tempo, i terroristi vennero presi in consegna dalle forze di Polizia del Kuwait, che qualche mese più tardi rispose con un secco no alla risposta di estradizione avanzata dall’Italia. “Seppi che due morirono durante un tentativo di evasione dal carcere, gli altri in azioni terroristiche in Giordania”, raccontò nel 2010 con rassegnazione Mario Muggianu. Sulla vicenda in Italia calò ben presto una coltre di silenzio. I quattro procedimenti giudiziari, uno civile, uno penale, uno amministrativo e uno della magistratura militare portarono a nulla. La spiegazione: “interessi superiori”. Proprio in quel periodo a Il Cairo, in Egitto, un incontro diplomatico pose le basi per della cosiddetta “strategia Moro”. Il succo era una sorta di accordo raggiunto sotto traccia con i terroristi di matrice islamica: “Voi non fate attentati contro l'Italia e gli italiani, e noi vi lasciamo fare gli affari vostri sul territorio italiano, controllati a vista dai servizi segreti”. Francesco Cossiga, molti anni più tardi, disse in un’intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera che la strage di Bologna fu un incidente causato da “amici palestinesi” che “manovravano in Italia”. Oggi la verità processuale scaturita dai procedimenti sulla strage di Bologna racconta tutt’altro (eversione nera), ma resta il fatto che la strage di Fiumicino, a oggi, non ha un colpevole che sia stato condannato in Italia a scontare una pena. Il che fa pensare che ci sia una pagina di verità dimenticate ancora da scrivere.

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