Non è una questione etica ma esclusivamente giuridica. Con la  bocciatura del quesito referendario sul fine vita la Corte costituzionale non ha espresso giudizi morali ma ha valutato che, così come risulterebbero le norme se private delle parti sottoposte a referendum abrogativo, verrebbe meno il principio dell’indisponibilità della vita umana: non si circoscriverebbe la deroga al caso di persone gravemente malate che vogliono e chiedono di metter fine alle loro sofferenze, e non si riserverebbe la possibilità al personale sanitario, con i medicinali idonei.   

Dunque, il referendum non è la strada  giusta ma questo non significa che una strada non ci sia. Del resto la stessa Corte costituzionale in passato per due volte ha sollecitato il Parlamento, come viene ricordato nelle motivazioni al giudizio di inammissibilità del referendum (dichiarato il 15 febbraio) depositate il 2 marzo.

“La richiesta referendaria è atto privo di motivazione”, si legge nel documento firmato dal presidente Giuliano Amato, dal redattore Franco Modugno e dal direttore della cancelleria Roberto Milana,  “e, pertanto, l’obiettivo dei sottoscrittori del referendum va desunto non dalle dichiarazioni eventualmente rese dai promotori ma esclusivamente dalla finalità incorporata nel quesito, obiettivamente ricavabile in base alla sua formulazione nell’incidenza del referendum nel quadro normativo di riferimento”.

I giudici sottolineano che il quesito verte sull’articolo 579 del Codice penale che configura il delitto di omicidio del consenziente. Si tratta di una norma incriminatrice “strettamente finitima, nell’ispirazione, a quella del successivo articolo 580 che incrimina l’aiuto (oltre che l’istigazione) al suicidio”. Le due disposizioni riflettono, nel loro insieme, l’intento del legislatore del 1930 di tutelare la vita umana anche nei casi in cui il titolare del diritto intenderebbe rinunciarvi, sia manu alius sia manu propria ma con l’ausilio di altri. “Esclusa una reazione sanzionatoria nei confronti dello stesso autore dell’atto abdicativo, anche nei casi in cui essa sarebbe materialmente possibile (per essere il fatto rimasto allo stadio del tentativo)”, ossia, chi tenta il suicidio e sopravvive non è punibile,  il legislatore erige una cintura di protezione indiretta rispetto all’attuazione di decisioni in suo danno, “inibendo, comunque sia, ai terzi di cooperarvi, sotto minaccia di sanzione penale”.

Ed è così che l’articolo 579 punisce con la reclusione da 6 a 15 anni chiunque cagioni la morte di un uomo col consenso di lui. “La norma esclude implicitamente ma univocamente che possa operare la scriminante del consenso dell’offeso, la quale presuppone la disponibilità del diritto leso, accreditando con ciò il bene della vita umana del connotato dell’indisponibilità da parte del suo titolare”.

La Corte precisa che “il quesito referendario è costruito con la cosiddetta tecnica del ritaglio”, si chiede cioè l’abrogazione di frammenti lessicali della disposizione attinta, in modo da provocare la saldatura dei brani linguistici che permangono. Agli elettori viene chiesto se vogliano una abrogazione parziale della norma incriminatrice che investa il primo comma dell’articolo 579 limitatamente alle parole “la reclusione da 6 a 15 anni”, l’intero secondo comma, il terzo  comma limitatamente alle parole “si applicano”..

Per effetto del ritaglio e della conseguente saldatura tra l’incipit del primo comma e la parte residua del terzo comma, la disposizione stabilirebbe che chiunque cagioni la morte di un uomo col consenso di lui è punito con le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso contro un minore di anni 18, una persona inferma di mente o il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero venga carpito con l’inganno. Dunque, secondo la Corte, il testo risultante dal referendum escluderebbe implicitamente, ma univocamente, la rilevanza penale dell’omicidio del consenziente in tutte le altre ipotesi, “sicché la norma verrebbe a sancire la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo”.

In altre parole, l’effetto di rendere legittimo l’omicidio del consenziente non sarebbe circoscritto alla morte di una persona affetta da malattie gravi e irreversibili. “Egualmente irrilevanti risulterebbero le qualità del soggetto attivo (il quale potrebbe bene non identificarsi in un esercente la professione sanitaria), le ragioni da cui questo è mosso, le forme di manifestazione del consenso e i mezzi usati per provocare la morte (potendo l’agente servirsi non solo di farmaci che garantiscano una morte indolore ma anche di armi o mezzi violenti di altro genere)”.

La Corte costituzionale valuta infine poco significativo che l’iniziativa referendaria, nata quale reazione all’inerzia del legislatore nel disciplinare la materia delle scelte di fine vita, anche dopo i ripetuti moniti provenienti da questa Corte, sia destinata, nell’idea dei promotori, a fungere da volano per il varo di una legge che riempia i vuoti lasciati dal referendum.

L’approvazione della proposta referendaria, in sintesi, comporterebbe il venir meno di ogni tutela. Di lì la valutazione di inammissibilità del quesito.                                                                                                                                                                                                                                                                                                        

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