Il coraggio del dolore. La collera che diventa azione. E cerca occhi che vedano, orecchi che ascoltino, menti che ponderino l’ordinaria violenza intorno a noi: sottile, feroce, quotidiana. Celata sino al momento dell’esplosione che la rende visibile, e paradossalmente, ancora più estranea: gesto di (presunta) follia, altro da noi. E invece bisogna trovarla, la lucidità di dire che è il male è onnipresente, ma non lo vediamo perché siamo assuefatti.

Ha un titolo freddo (“Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta”) ma brucia nell’anima il lavoro di Stefania Prandi, giornalista e fotografa, presentato in questi giorni a Cagliari. Due i canali di comunicazione: un libro di poco più di cento pagine per dodici storie raccontate con la prosa asciutta della cronista (Settenove Edizioni) e una mostra (con catalogo) con trenta ritratti fotografici, allestita nel Foyer del Teatro Massimo.

Un’inchiesta lunga tre anni

“La mostra – spiega la curatrice Emanuela Falqui - nasce a seguito di un'indagine durata tre anni, che ha raccolto, attraverso le parole dei familiari, le storie di donne uccise per mano di mariti, ex fidanzati, padri, o che sono sparite”. Come Giulia Galiotto, assassinata a trent’anni, colpita otto volte con un sasso e gettata nel fiume Secchia dal marito Marco Manzini. Che al processo se l’è cavata con 19 anni e quattro mesi, perché non è stata riconosciuta la premeditazione. “I pretesti dello scoppio d’ira e dell’infermità mentale – ricorda  Prandi nel suo libro - sono usati con frequenza dai legali degli assassini di donne”. Nonostante una ricerca dell’Università degli studi di Milano-Bicocca  dimostri come i femminicidi sono “l’esito di una lucida e irrevocabile programmazione pianificata nel tempo”.

Il racconto di Giovanna Ferrari, la mamma di Giulia, che ha canalizzato il proprio dolore nell’attivismo politico, apre il libro di Prandi. Così come le acque del Secchia aprono il percorso della mostra, che alterna immagini e testimonianze, brevi sintesi delle vicende approfondite nel libro. “Un incontro di sguardi e di fiducia – scrive ancora Falqui - in cui i familiari consegnano il loro vissuto alla fotografa che, con delicatezza, crea un immaginario intimo, di grande intensità psicologica e profondamente incisivo, allontanandosi dalla spettacolarizzazione del dolore alla quale siamo abituati per lasciare spazio alla riflessione”.

Giuliano Galiotto e il ritratto\u00A0della figlia Giulia (foto Prandi)
Giuliano Galiotto e il ritratto\u00A0della figlia Giulia (foto Prandi)
Giuliano Galiotto e il ritratto della figlia Giulia (foto Prandi)

Il pudore del racconto

Nel libro come nella mostra la sofferenza investe chi legge/guarda. Eppure è raccontata con sobrietà estrema, con pudore. Stefania Prandi non ama il giornalismo che travalica.  “Un lavoro come questo implica ovviamente la capacità di attingere alla propria emotività”, spiega. “Però è importante mantenere la distanza, per rispetto delle persone fotografate, i soggetti delle immagini. Le mie emozioni non devono sovrapporsi alle loro”. È un approccio da cronista, ma non è il più diffuso quando si parla di donne uccise. “Spesso nella narrazione dei femminicidi, c’è un’appropriazione, i giornalisti, nei loro articoli o nelle trasmissioni tv, prendono troppo spazio rispetto al fatto che si sta raccontando”.

Quarantuno anni, nativa di Pordenone ma milanese di adozione, Prandi si muove fra Milano e il mondo, raccontando storie di donne – muratrici, raccoglitrici di pomodori – che non si arrendono all’orrore del loro quotidiano. Ha fatto la gavetta di cronaca, suole consumate scarpinando,  campanelli da suonare, persone da guardare negli occhi. Prima che Internet si trasformasse nella fonte privilegiata del giornalismo da redazione. Forse è per questo che sa costruire con le persone che ritrae, con le parole o l’obiettivo, una relazione che non è una rapina. Consapevole dei rischi corsi da chi si apre a lei. “Ripercorrere il femminicidio è ri-traumatizzarsi. Anche una domanda di troppo può essere dannosa”.

Le storie

Tra il 2016 e il 2019 la giornalista ha contattato donne e uomini che hanno perso figlie o sorelle perché sono state uccise o perché sono sparite, in circostanze che purtroppo fanno sospettare femminicidi mai  scoperti. Impresa non semplice. “Molti mi hanno detto un secco no, per diffidenza verso i media. Altri hanno mostrato fiducia, ma poi nel tempo il rapporto si è interrotto, le loro foto non le ho usate. Altre volte c’è stata una disponibilità totale”. Prandi fotografa i suoi interlocutori nelle loro case, accanto alle foto delle figlie perdute, mentre accarezzano i loro vestiti: quello che rimane. Accoglie le loro storie tremende con semplicità, senza giudizio.

Giovanna Zizzo, la mamma di Lauretta, accoltellata a undici dal padre, ricorda come ha lavato il corpo senza vita della bambina, coperto di sangue, le ferite aperte. Le parlava, e sul volto di Lauretta – dice - è comparso un sorriso. Giovanna, che si sente rifiutata dal paese, messa sotto accusa perché aveva lasciato il marito, oggi ha un compagno che la sostiene nelle sue battaglie. È vedovo, si sono conosciuti in cimitero, sentono che Lauretta e la moglie di lui si sono messi d’accordo: “Lei fa da mamma alla mia bambina nel posto dove sono, e io sto con i figli e i nipotini di Gerardo”.

Marisa Golinucci cerca una figlia scomparsa 28 anni fa: di Cristina è rimasta la 500 turchese, parcheggiata nei pressi del convento dei Cappuccini di Cesena. Andava a trovare il suo padre spirituale, è svanita nel nulla. Marisa ha dichiarato all’Huffington Post: “Da chi frequentava e frequenta quel convento ho sempre avuto pochi aiuti, anzi direi proprio il contrario”. 

Igor ha diciotto anni e ne aveva tre quando suo padre ha accoltellato a morte la mamma. Vive nel terrore di assomigliargli. È tormentato da crisi di rabbia, è stato ospite di tre comunità terapeutiche diverse, ha subito un Trattamento sanitario obbligatorio. La notte, per addormentarsi, stringe la mano della nonna.

Molti delitti, pochi dati

Non è una collezione per voyeur, ma la prova che il fenomeno è diffuso e riguarda la società nel suo complesso, non solo le vittime e i loro familiari. Prandi alterna i racconti dei protagonisti, i ritratti in primo piano, al campo lungo della riflessione, citando gli studi internazionali e le statistiche sui femminicidi. “In Italia viene assassinata in media, una donna ogni 60 ore e mentre il numero degli omicidi diminuisce , quello dei femminicidi, in proporzione, aumenta e rappresenta quasi il 40 per cento del totale”. Ancora: in Europa una donna su tre ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita. Sempre troppo pochi, i dati conosciuti e sottoposti ad analisi. “è paradossale – scrive nella post fazione del libro Patrizia Romito, docente di Psicologia sociale all’Università di Trieste, studiosa della violenza di genere – che i dati più affidabili sui femminicidi siano oggi forniti grazie al prezioso lavoro dei centri antiviolenza, e soprattutto della Casa delle donne a Bologna, e non dallo Stato. Ma è lo Stato, con i suoi mezzi e la sua autorevolezza che dovrebbe dirci quante donne sono uccise e da chi”.

L’inferno della porta accanto

Casalinghe, insegnanti, manager: le donne uccise, violentate, scomparse, appartengono a tutte le classi sociali, come i loro parenti. I ritratti di Prandi ci mostrano facce quasi familiari nella loro normalità. L’inferno è dietro la porta accanto. “È quello che la società dimentica”, commenta la giornalista. “La violenza in famiglia non è sempre eclatante, si esibisce in una quotidianità che ci addomestica”.  A pagarne le conseguenze, anche quando i maltrattamenti non sfociano in omicidio, sono i figli: la violenza assistita, con il suo carico traumatico, avviluppa le generazioni. Quasi tutte le intervistate (gli uomini sono pochi, talvolta restano in secondo piano) in qualche modo si rimproverano di non aver capito per tempo. In tanti, troppi, casi a non capire sono stati i carabinieri, la polizia, i giudici che avrebbero dovuto fermare i violenti, proteggere le donne che denunciavano.

La resistenza all’ingiustizia

La giustizia del dopo, quella che arriva quando è troppo tardi, è un’altra fonte di angoscia: nelle aule dei tribunali, gli avvocati difensori usano gli argomenti classici del delitto d’onore, infangano la memoria delle uccise per trovare una giustificazione che mitighi la condanna dell’assassino. I giornalisti prendono parte a questa violenza senza sangue che si definisce vittimizzazione secondaria. In barba alla legge, alle Carte deontologiche, ai corsi di formazione, rincorrono spesso dettagli raccapriccianti, arzigogolano teorie sulle ragioni degli assassini, braccano i familiari, facendo  spettacolo del loro dolore. Non solo. la cronaca racconta ogni femminicidio come un fatto a sé stante. Le donne morte sono tanti puntini e raramente ci si prende la briga di collegarli, mettendo in evidenza il substrato  socio-culturale che le accomuna, ed è radicato nel millenario squilibrio di potere fra uomo e donna. Infine, praticamente nulli sono i sostegni dello Stato: anche quando le sentenze decretano risarcimenti, raramente arrivano ai figli delle vittime.

Le protagoniste e i protagonisti del libro e della mostra di Stefania Prandi hanno vissuto tutto questo senza abbassare la testa. “Le persone con cui ho parlato sono condizionate per sempre da quanto è accaduto, ma non si sono arrese. Ho scoperto in loro la resistenza all’ingiustizia, la loro forza, la loro agency rispetto a un trauma”. Queste donne e questi uomini hanno cercato un confronto che altri che avessero vissuto la loro esperienza. Hanno fondato associazioni o si sono unite a quelle esistenti. Rendono testimonianza nelle conferenze, nei corsi di formazione professionale, nelle scuole, nelle trasmissioni tv, perché il loro dolore non sia vano.

Stefania Prandi\u00A0(foto Alan Gard)
Stefania Prandi\u00A0(foto Alan Gard)
Stefania Prandi (foto Alan Gard)

Un giornalismo non allineato

Non è stato facile mettere insieme “Le conseguenze”, né il libro né la mostra. Prandi è una free lance e si finanzia attraverso il crowdfunding o partecipando a concorsi per grant internazionali. Lavora, duole dirlo, soprattutto per editori internazionali. Quando nel 2010 si è aperta la grande crisi dell’editoria nazionale, ha fatto un  Master in Gender studies in Svezia. “È stata una finestra sul mondo, ho cambiato percorso. L’imprinting del giornalismo italiano è provinciale”.

La giornalista oggi fa parte di Women photograph (https://www.womenphotograph.com ) una non profit che raccoglie un migliaio di fotografe/i di cento Paesi di tutto il mondo. “Un gruppo molto  stimolante. C’è una bella discussione sul male gaze, con tanti punti di vista su come sovvertirlo”.

Il lavoro di Prandi ora spazia dall’Europa all’Africa, al Sudamerica. Ha collaborato con il Sole 24 Ore, National Geographic, Radiotelevisione svizzera, El País, Al Jazeera, Correctiv, BuzzFeed. Nel 2018 ha pubblicato il libro “Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo” per la piccola e combattiva casa editrice femminista Settenove. La stessa che l’anno scorso ha edito “Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta nella collana “Lo scellino”, citazione da “Una stanza tutta per sé”, il saggio di Virginia Woolf sulla letteratura femminile pubblicato a Londra  nel 1928.

“La violenza maschile contro le donne – si legge nella homepage della casa editrice - non è un’emergenza improvvisa ma un fenomeno strutturale delle società che va affrontato a partire da un approccio pedagogico e culturale che proponga modelli non discriminatori di educazione paritaria. Per questo, Settenove lavora sugli ostacoli culturali e sociali che, in forme diverse, legittimano la violenza”. 

Il saggio “Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta” è stato presentato al Massimo di  Cagliari (in collaborazione con la libreria Edumondo di Marina Boetti) dall’autrice in dialogo con la psicologa Luisanna Porcu, del Centro antiviolenza di Nuoro, e  Pia Brancadori della Circola nel Cinema Alice Guy, associazione ha collaborato all’organizzazione della mostra con la Collettiva Le Infestanti, il Centro Antiviolenza dell'Unione Comuni d'Ogliastra, il Centro di Documentazione e Studi delle Donne di Cagliari,  Sardegna Teatro e Dry-Art.  L’esposizione resterà nella MGallery del Teatro Massimo sino a giovedì 19 giugno. L’ingresso è gratuito, ma occorre prenotare su EventBrite (https://www.eventbrite.it/e/biglietti-the-consequences-146915146157).

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