Natalia Ginzburg ne aveva fatto un romanzo ridotto, essenziale com’era il suo stile. Quando quel manoscritto di millecinquecento cartelle arrivò alla Einaudi, la severissima editor della casa editrice torinese (da vent’anni scrittrice famosa) capì subito che poteva diventare un grande successo con solo qualche taglio e qualche piccolo ritocco su uno stile denso, originale e sgrammaticato. Così ne amputò due terzi di storia e di pagine, ne accomodò la sintassi e gli impose il titolo di “Fiume disperso”. Quando Dolores Prato vide il risultato nelle bozze non poté far altro che sopportarne il taglio, impuntandosi però sull’originalità dello stile e sul titolo da lei voluto: “Giù la piazza non c'è nessuno”. Il libro uscì nel 1980 e fu un vero e proprio caso letterario perché l'autrice ruppe polemicamente con l'Einaudi subito dopo la pubblicazione, ma soprattutto perché questo era il romanzo d’esordio di una scrittrice che, di lì a poco, avrebbe compiuto novant’anni.

Grande e incompresa

Dolores Prato (Roma 1892-Anzio 1983) è stata una scrittrice gigantesca e incompresa. Visse una vita intera collaborando per le pagine culturali di diversi periodici e di Paese Sera, scrivendo romanzi che - a parte uno - sono stati pubblicati solo dopo la sua morte. Lo stesso “Giù la piazza non c’è nessuno” è uscito più volte in edizione integrale, già per Mondadori nel 1996. Quest’anno la casa editrice Quodlibet ha portato in libreria Educandato, la storia della sua adolescenza in collegio, il cui titolo originario non si è mai conosciuto.

L’infanzia del primo ‘900

Dolores Prato aveva una lunga vita dietro le spalle. Una vita di cui si sapeva pochissimo, se non quel che lei stessa raccontava. Un padre, avvocato ebreo, che non volle riconoscerla; una madre che l’abbandonò prestissimo in casa di uno zio prete e di una zia nubile, a Treja, vicino Macerata. Un’adolescenza stretta in collegio, fino a diciotto anni, quando va a studiare a Roma, facoltà di Magistero, laureandosi nel ‘19, e insegnando poi nelle scuole magistrali fino a quando le leggi razziali le tolgono la cattedra. Non ha insegnato più, nemmeno dopo la caduta del fascismo. Visse dunque scrivendo, articoli e racconti pubblicati su diverse riviste, un libro uscito in Polonia, e le storie preziose che hanno così faticato a vedere la luce. “Giù la piazza non c'è nessuno”, fu un caso letterario, anche per l'originalità del racconto di un'infanzia del primo Novecento. Lo sfondo è il paese, con le sue strade, e le storie, la gente, i riti e le usanze, le processioni e i funerali. Un mondo che, al di qua del portone di casa, è la vita della bambina che cresce accanto alla zia elegante, colta, distante, e allo zio dolcissimo, tenero, estroso, dispensatore dell'unico abbraccio di tutta una vita.

L’ombra della madre

Un mondo su cui aleggia l’assenza ingombrante di una madre che l'abbandonò piccina, e che ritorna - ogni tanto - dentro una bambola avuta in dono e un vestito nuovo. Una bambina che sa di non essere stata voluta. «Sono nata sotto un tavolino» esordisce Dolores Prato; quello sotto il quale «nacque la mia coscienza», che la proteggeva come una bestiolina nella tana ogni qualvolta udiva i discorsi degli zii sul suo aspetto e sulla sua salute. «Rimandala a sua madre, non vedi che ci muore in casa?» aveva detto lo zio a sua sorella, senza immaginare «che i bambini afferrano più di quanto i grandi suppongono». E capiscono, i bambini. Così, dentro l’indifferenza della gente di tutto un paese «nessuno mi sfiorava neanche con lo sguardo», e delle amiche della zia che «di proposito evitavano di vedermi», la piccola Dolores capiva che «ignorandomi volevano dimostrare qualcosa. Me ne accorgevo, ma non me n’importava nulla». Capiva che dietro tutto questo c'era l'ombra di una madre svergognata, e non mancavano le volte che si «scartabellavano avanti a me i fascicoli delle sue malefatte. Mi consideravano imputata e giudice allo stesso tempo».

Il ricordo tenero

Condannata all’ostracismo generale, lei figlia rifiutata, è presente nella sua terra d’infanzia, a tutti i costi - anche «se nessuno mi chiamava, e nessuno si accorgeva di me» - quasi un fantasmino di bimba più vivo e più forte di tutto e di tutti. Forte come il bisogno di carezze e abbracci e filastrocche; il bisogno che fece il miracolo, una volta memorabile che arrivò la zia Ernestina «che mi sorrideva, mi stringeva al petto, mi faceva domande da bambina», e con lei «fui bambina anche di fuori, per poche ore».

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