È una battaglia che i giornalisti italiani, schierati contro il carcere per i delitti di opinione, combattono da anni. E ora, dopo la Consulta anche la Cassazione firma un provvedimento che va in quella direzione: la norma del Codice penale che prevede la pena detentiva non è stata cancellata però è sempre più difficile punire con il carcere o i domiciliari chi è stato dichiarato colpevole di diffamazione a mezzo stampa.

La Cassazione non ha fatto altro che tradurre in pratica i principi stabiliti lo scorso anno dalla Corte Costituzionale: «La pena detentiva è consentita solo in presenza di eccezionale gravità del fatto, dal punto di vista oggettivo e soggettivo. In concreto: si va in carcere solo quando vengano diffusi messaggi diffamatori connotati da discorsi di odio e di incitazione alla violenza ovvero in campagne di disinformazione gravemente lesive della reputazione della vittima».

La decisione è del 20 luglio scorso, le motivazioni sono state depositate martedì. I fatti: la Corte d’appello di Bologna aveva condannato una donna a tre mesi di reclusione per diffamazione aggravata nei confronti di uno straniero. Aveva diffuso scritte offensive su un lenzuolo, un cartoncino e un foglio. Era il 2015. Nel dichiarare inammissibile il ricorso dell'imputata che si fondava sul ritardo della notifica della citazione, la Cassazione ha nel contempo rilevato d’ufficio «l’illegalità della pena detentiva inflitta, con la conseguente estinzione del reato per prescrizione».

La base della decisione è tutta nel verdetto del 2021 della Corte Costituzionale: l’applicazione della pena detentiva per il delitto di diffamazione a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità è consentita solo in presenza di eccezionale gravità del fatto.

Internet

A onor del vero, ancora prima della Consulta la Cassazione si era già espressa nel senso della validità del principio nei casi di offesa recata con la stampa o qualsiasi altro mezzo di pubblicità, in particolare tramite internet, anche al di fuori dell’attività giornalistica. Il principio consacrato da quella sentenza (Scaffidi, dal nome dell’estensore) aveva anticipato i contenuti della decisione assunta dalla Consulta il 22 giugno 2021: dopo aver dichiarato costituzionalmente illegittima la disposizione dell’articolo 14 della legge numero 47 del 1948 nella sua interezza, per contrasto con gli articoli 21 della Costituzione e 10 della Cedu, aveva sottolineato che «l’abolizione della lex specialis non causa un vuoto di tutela poiché si riespande l’ambito precettivo delle norme generali dettate dall’articolo 595 del Codice penale».

La democrazia

La Corte costituzionale si era interrogata anche sulla compatibilità costituzionale dando una risposta positiva, purché entro rigorosi limiti: «Se è vero che la libertà di espressione – in particolare sub specie di diritto di cronaca e di critica esercitato dai giornalisti – costituisce pietra angolare di ogni ordinamento democratico, non è men vero che la reputazione individuale è del pari un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona. Aggressioni illegittime a tale diritto compiute attraverso la stampa o gli altri mezzi - la radio, la televisione, le testate giornalistiche online e gli altri siti internet, i social media – possono incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime. E tali danni sono suscettibili, oggi, di essere enormemente amplificati proprio dai moderni mezzi di comunicazione che rendono agevolmente reperibili per chiunque, anche a distanza di molti anni, tutti gli addebiti diffamatori associati al nome della vittima». Questi pregiudizi, secondo la Consulta, devono essere «prevenuti dall’ordinamento con strumenti idonei, necessari e proporzionati nel quadro di un indispensabile bilanciamento tra le contrapposte esigenze di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, e del diritto di cronaca e di critica in particolare. Tra questi strumenti non può in assoluto escludersi la sanzione detentiva, sempre che la sua applicazione sia circondata da cautele idonee a schermare il rischio di indebita intimidazione esercitato su chi svolga la professione giornalistica. Si deve infatti ritenere che una pena detentiva non sia di per sé incompatibile con la tutela della libertà di manifestazione del pensiero nei casi in cui la diffamazione si caratterizzi per la sua eccezionale gravità. Chi ponga in essere simili condotte non svolge la funzione di cane da guardia della democrazia che si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità scomode ma, all’opposto, crea un pericolo per la democrazia, combattendo l’avversario mediante la menzogna, per screditarlo. Con prevedibili conseguenze distorsive anche rispetto agli esiti delle competizioni elettorali».

Odio e violenza

Alla luce di tutto questo il giudice, scrive la Cassazione, deve però verificare la eccezionalità della condotta che va individuata nella diffusione di messaggi diffamatori connotati da discorsi di odio e di incitazione alla violenza ovvero in campagne dei disinformazione gravemente lesive della dignità della vittima compiute nella consapevolezza della oggettiva e dimostrabile falsità dei fatti ad essa addebitati.

Ebbene, nel caso della sentenza della Corte d’appello di Bologna nessuna valutazione in tal senso è stata fatta dal giudice di merito che ha peraltro escluso l’aggravante dell’odio razziale in origine contestata. Tale situazione dovrebbe comportare l’annullamento con rinvio per una rivalutazione della pena. Tuttavia, scrive la Cassazione, «l’annullamento del punto concernente una pena illegale comporta la valida instaurazione del rapporto processuale in relazione al pertinente capo d’imputazione, consentendo l’utile decorso del termine di prescrizione del reato. Il rinvio è dunque inibito dall’intervenuta prescrizione».

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