I nemici più insidiosi per i nostri figli ce li teniamo in casa, ci seguono ovunque andiamo, dormono accanto a noi, non ce ne separiamo mai. Sono i telefoni e tutti gli altri apparecchi elettronici che schiudono ai giovani il mondo social, fonte di attrazioni e pericoli per le anime in formazione. Una visione un po’ apocalittica, ma è quella che sta alla base di alcune recenti decisioni di vari governi mondiali, che in un modo o nell’altro stanno cercando di porre dei limiti alla possibilità, per i ragazzi, di scorrazzare senza controlli nella rete.

Il provvedimento di cui si è parlato di più è quello assunto dall’Australia, che ha vietato l’accesso ai social network a tutti i minori di 16 anni. La legge votata nel novembre 2024 dal Parlamento di Canberra concede ai gestori delle varie piattaforme (da Facebook a Instagram, da X a TikTok e così via, con la sola eccezione di YouTube) dodici mesi di tempo per predisporre adeguati sistemi di verifica dell’età degli utenti, in modo da escludere chi non raggiunge la soglia minima prevista. Le multe, per le società che non si adeguano, possono raggiungere una cifra pari addirittura a 32 milioni di dollari Usa.

“Salute a rischio”

Il primo ministro australiano, Anthony Albanese, ha motivato lo stop col fatto che l’uso eccessivo dei social media mette a rischio la salute fisica degli adolescenti: in particolare per la diffusione di un’idea sbagliata del rapporto col proprio corpo, e per i tanti contenuti misogini o discriminatori.

Per certi versi più circoscritto ma al tempo stesso più drastico l’intervento deciso in Albania, nelle stesse settimane, dal premier Edi Rama, che ha annunciato il blocco totale, per un anno, di TikTok: che dunque nel Paese delle aquile risulterà inaccessibile non solo ai giovani, ma a tutti. Una svolta nata dopo l’omicidio di un 14enne, che sarebbe scaturito da una lite nata sulla piattaforma cinese dedicata ai video. Sempre contro TikTok si è scagliato negli ultimi giorni del 2024 anche il Venezuela, dove la Corte Suprema ha comminato al social network una sanzione di circa 10 milioni di dollari per non aver contrastato la circolazione virale di video sulle cosiddette challenge, ossia le sfide che inducono i ragazzi ad attuare comportamenti anche molto rischiosi per dimostrare il proprio coraggio. Pare che, nel Paese sudamericano, almeno tre adolescenti siano morti per un uso spericolato di alcune sostanze chimiche, stimolato appunto da sfide apparse su TikTok.

Tre risposte molto severe a un problema che però anche altri governi e istituzioni stanno valutando attentamente: la dimensione social in cui siamo ormai tutti immersi può condurre spesso a situazioni pericolose, dalle ondate di insulti verso il bersaglio di turno ai terribili casi di revenge porn. E sono ormai tante, anche in Italia, le vicende di questo tipo che si sono concluse in maniera drammatica, a volte col suicidio di qualche protagonista. Nel nostro Paese non ci sono però divieti particolari: già nel 2018 un parere della Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, aveva precisato che non sussiste un divieto di accesso ai social media per i minorenni, confermando tuttavia che fino ai 16 anni non è possibile esprimere un consenso digitale senza l’ok dei propri genitori. Secondo Albano, “l’accesso alla rete coinvolge diversi diritti dei minorenni: dall’ascolto al diritto di espressione, fino a quello di essere parte della vita culturale e artistica del Paese. La loro deve essere una ‘partecipazione leggera’, assegnando a chi ne ha la responsabilità genitoriale i pesi e le responsabilità”.

Il ruolo degli adulti

Anche secondo chi studia le dinamiche psichiche degli adolescenti, il ruolo dei genitori è cruciale: “La tematica del rapporto tra i giovani e i social media è molto complessa, ma di certo chiama in causa anche gli adulti, che dovrebbero operare qualche forma di controllo e porre dei limiti all’utilizzo di determinati strumenti”, riflette Nicola Mameli, psicologo e psicoterapeuta con studio a Cagliari, che ha anche collaborato a lungo con alcuni istituti scolastici. “I divieti applicati in Australia (dove per altro hanno spesso un approccio molto tranchant su varie questioni, come la tutela della loro biodiversità), o in altri Paesi, non possono essere la soluzione definitiva: li vedo più che altro come un modo per dimostrare interesse alla questione, e magari da qualche parte si deve pur iniziare. Ma non si può risolvere tutto col proibizionismo. Semmai servirebbe un’educazione all’uso dei social media”.

Immagine simbolo (foto Ansa)
Immagine simbolo (foto Ansa)
Alcune studentesse col cellulare prima dell'ingresso a scuola

Eppure, sull’indicazione del ministro dell’Istruzione Valditara di vietare l’uso dei cellulari a scuola, l’opinione di Mameli non è negativa: “All’interno di uno spazio come la scuola, che è dedicato alla socializzazione reale, potremmo dire analogica, non trovo sbagliato che si estromettano quegli strumenti che distraggono da questo scopo. Naturalmente quando cellulari e tablet non siano necessari come strumenti compensativi per i ragazzi con difficoltà cognitive”. Il rischio, per un adolescente troppo prigioniero della sua dimensione social, è che “non sia poi più in grado di socializzare in maniera adeguata senza passare attraverso il mezzo elettronico”. Gli adulti non sono immuni da questa piaga: “Ma almeno in teoria dovrebbero avere degli strumenti per discernere ciò che è artificioso da ciò che ha una dimensione di realtà”, osserva lo psicoterapeuta, “e anche un bagaglio etico che li aiuti a distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è. Per quanto, anche per i più cresciuti, quel discernimento non sia sempre così facile”.

Gli esperimenti

È probabile che in futuro altri Paesi vengano tentati dalla linea proibizionista, per frenare il caos social. Al momento, la maggior parte si regola perlopiù chiedendo il consenso dei genitori per creare, sulle varie piattaforme, degli account per chi ha meno di una certa età, che di solito varia dai 13 ai 16 anni. Pochi invece puntano sulla cosiddetta media education, ossia dei programmi scolastici che istruiscano sull’utilizzo dei media: in questo la Finlandia recita la parte del pioniere, ma qualche esperimento si sta diffondendo qua e là. Anche in Sardegna, dove l’Università di Sassari ha progettato un master di primo livello sulla Media education, nato da una collaborazione col Comitato regionale per le comunicazioni, che intende “formare i formatori” sul giusto approccio alle tante opportunità oggi concesse dalla tecnologia.

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