Era dai tempi della regina Vittoria che un indiano non si avvicinava al cuore del potere britannico. La recente nomina di Rishi Sunak a primo ministro - volto presentabile del partito conservatore per il dopo Boris Johnson segnato dal repentino fallimento di Liz Truss - è stata trattata come un fatto storico, perché, per la prima volta, un figlio di un’ex colonia dell’Impero entra da padrone di casa a Downing Street. Unico premier finora proveniente da una minoranza etnica non europea. Un privilegiato, sia detto, per provenienza sociale (padre medico, madre farmacista), studi nelle migliori università, moglie ricchissima. Detto questo, le sue origini sono state comunque degne di nota.

Il servitore personale

Fosse stato per Vittoria, chissà, l’evento sarebbe arrivato ben prima. Con i dovuti distinguo, il soffitto di cristallo per un figlio dell’India lei lo infranse quando nominò Munshi, maestro, il suo servitore personale Abdul Karim, un giovane originario del Punjab, arrivato a palazzo nel giugno del 1887 in occasione del giubileo per i cinquant’anni del regno. Da ormai due lustri (1876) la regina Vittoria era anche imperatrice d’India, e fu proprio questo il possedimento che più di ogni altro - poiché principale esportatore di materie prime nonché terra di sette sudditi su dieci - rese l’impero britannico una superpotenza mondiale.

Il castello del maharajah

Vittoria amava l’India anche se non ci mise mai piede. Nel castello di Osborne fece costruire un’intera ala con stucchi, arredi e opere d’arte degni della dimora di un maharajah, e qui teneva i ricevimenti e i banchetti più importanti. Era talmente attratta dalla cultura e dagli usi di quel lontano Paese che volle impararne la lingua, e quel giovane dai modi eleganti - «con la faccia seria e bella», scrisse nel suo diario - le parve l’insegnante adatto. Fu così che cominciò la storia tra Vittoria e Abdul, raccontata in un film diretto da Stephen Frears e interpretato da Judi Dench e Ali Fazal, star di Bollywood.

L’ombra della regina

Il servitore indiano, allora ventiquatrenne, passò da maggiordomo a Munshi, divenendo in breve tempo l’ombra della regina, tanto da poterla avvicinare quando voleva, mentre chiunque per poterla incontrare doveva farsi annunciare. Fu, la loro, una relazione ritenuta da tutti sconveniente poiché la sovrana trattava da pari un indiano (per giunta di bassa estrazione sociale), ma a Vittoria le chiacchiere non importavano, tanto che gli regalò tre case e un terreno in India, dandogli oltretutto un appannaggio per sostenere economicamente i familiari che lui aveva portato a Londra.

La nostalgia di Alberto

Col tempo il Munshi si sarebbe rivelato un approfittatore, ma per anni la regina tenne a bada le rimostranze dei figli, preoccupati per la sua sanità mentale, e i mugugni della servitù. Vittoria pareva obiettivamente infatuata, e furono questi suoi atteggiamenti di estremo riguardo nei confronti del giovane indiano a far crescere il sospetto che la loro fosse una relazione sentimentale. Vittoria era tutt’altro che una fredda, algida puritana. Dopo la morte dell’amatissimo marito Alberto visse nella nostalgia dell’amore e delle sue carezze (in una lettera alla figlia Vicky confidò che «la fiamma mai sopita brucia dentro di me e mi consuma»). Si sentiva sola, e fu per questo che apprezzava le attenzioni galanti degli uomini - nobili o servitori - che colpivano il suo cuore. Se ne infatuava sì, senza però andare oltre.

La piccola fata

Era successo col primo ministro Benjamin Disraeli, politico eccentrico e anticonformista di quindici anni più grande. Lui la chiamava «la piccola fata», lei gli confidava i pensieri più intimi. Ma l’affetto più grande fu senz’altro quello per John Brown, il servitore scozzese, colui che Vittoria aveva definito «l’amico più caro che nessuno in questo mondo potrà mai sostituire»; così tanto caro che, dopo la sua morte nel marzo 1883, la regina confidò a un consigliere: «Provo un dolore simile a quello della scomparsa del mio caro Alberto». Un dolore che l’ha accompagnata per altri diciotto anni, fino al suo ultimo giorno di vita.

Il sogno della vecchiaia

Abdul, invece, «aveva incarnato per Vittoria tutte le speranze che riponeva nei confronti dell’impero indiano», ha scritto la storica americana Carolly Erickson. «Rappresentava l’illusione che l’India fosse un paradiso, il sogno della sua vecchiaia». Si rese conto di chi veramente era il Munshi nel 1897, dieci anni dopo il loro primo incontro. Aveva 78 anni, era ormai una vecchia signora piena di acciacchi, consapevole di avergli sempre perdonato certe intemperanze quando gli negava qualcosa, e adesso apriva gli occhi su tanti altri dettagli. Abdul era un ladro, ne ebbe le prove, e così decise di allontanarlo.

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