Ha guidato la rivoluzione del 2007 e se n'è andato via scrivendo su un foglio di carta "la dignità non ha prezzo". Ha avallato le cessioni di Suazo, Esposito e Langella per ringiovanire la rosa e ripartire da zero. «Un azzardo». Il tempo gli ha poi dato ragione. Nel Cagliari attuale ci sono ancora le sue tracce e di questo Marco Giampaolo (nel frattempo diventato il tecnico del Catania, prossimo avversario dei rossoblù domenica al Sant'Elia) ne va tremendamente orgoglioso. Perché ha lanciato Acquafresca, Biondini e, soprattutto, Matri in serie A, valorizzato Conti, Pisano e cambiato la mentalità di un intero spogliatoio. «Non più basata sulle individualità, ma sul collettivo». Spesso ha fatto scelte impopolari, qualcuna l'ha pagata sulla propria pelle. «Ma la credibilità di un allenatore viene prima di tutto, e in questo penso di essere stato sempre coerente». Così in Sardegna ha fatto anche il pieno di esoneri: due in tredici mesi. Ma alla fine è stato lui a staccare la spina quando Cellino gli ha chiesto per la seconda volta di tornare. Nessun rimpianto, nessun dolore. «Forse se fossi stato più furbo e opportunista sarei andato avanti, ma io sono fatto così». Un rivoluzionario sì, molto tradizionalista, però.

Giampaolo, che cosa resta oggi di quella rivoluzione?

«Un gruppo più forte, cresciuto tanto sotto tutti i punti di vista. Rinunciare alle certezze per portare avanti un processo nuovo di ringiovanimento all'epoca poteva sembrare un azzardo. E non è stato semplice sfidare lo scetticismo generale e le paure. Ora a distanza di quattro anni, però, possiamo dire che la scommessa della società è stata vinta».

C'è ancora qualcosa di suo in questo Cagliari?

«Assolutamente no. Io ho dato il via al rinnovamento, un passo cruciale, poi il Cagliari ha fatto il suo percorso, anche se tanti dei giocatori che ho allenato io sono ancora lì, protagonisti».

Soprattutto Matri.

«Con me giocava lui e un po' meno Acquafresca, che ancora doveva strutturarsi fisicamente. Già allora Alessandro era determinato, voleva arrivare in alto e lavorava sodo per questo. Non mi meraviglia il fatto che ora sia uno degli attaccanti più appetibili».

Al contrario la meraviglia la crisi di Acquafresca?

«Dico solo che le sue qualità sono indiscutibili e presto tornerà ad essere il Robert che tutti conosciamo. Cagliari sarà ancora una volta il suo trampolino di lancio, su questo non ho dubbi. Lui conosce l'ambiente e l'ambiente conosce lui».

L'avventura in rossoblù di Giampaolo, invece, si è interrotta sul più bello.

«Il Cagliari è particolare dal punto di vista societario. Devi conoscere bene gli uomini e relazionarti con questi nella maniera più opportuna. Forse se fossi stato io più furbo e opportunista, sarei andato avanti. Ma non ce la faccio proprio a essere quello che non sono. In un rapporto di lavoro preferisco la schiettezza».

Partiamo dal primo esonero.

«Ingiustificato. La squadra, la stessa che l'anno precedente si era salvata all'ultima giornata, aveva cinque punti di vantaggio sulla terzultima. Insomma, fui mandato via non per i risultati ma perché le mie idee sul gioco e sulla valorizzazione dei giocatori non collimavano con quelle della società».

Con quale spirito è poi tornato quando Cellino l'ha richiamata?

«Questo è il mio lavoro. E sono tornato per portarlo a termine».

La seconda volta, però, ha detto no.

«Venni esonerato dopo una partita non giocata a Roma. Già il giorno successivo avevo deciso, a malincuore, che la mia storia al Cagliari era finita e non sarei più tornato».

Rinunciando all'ingaggio disse "la dignità non ha prezzo". Un gesto insolito nel calcio.

«Oggi quello dell'allenatore è uno dei mestieri più difficili. Sei sempre nel tritacarne, sei l'anello debole del sistema. Per questo devi avere la leadership tecnica e mantenere la credibilità. Se vengono meno queste prerogative perdi il controllo della squadra e a quel punto non ha più senso andare avanti».

Forse non l'ha ancora digerito.

«Ormai è passato del tempo. Ogni volta che ci ripenso, però, mi dispiace. Era appunto l'anno della rivoluzione. Avevamo cambiato tanto. Non c'erano più Suazo, Esposito e Langella, che avevano fatto la storia del Cagliari. Avevamo ricominciato da giocatori promettenti, ma inesperti, vale a dire Matri, Acquafresca, Larrivey. Eravamo partiti alla grande vincendo addirittura a Napoli, la domenica successiva perdemmo solo al 92' con la Juventus. Poi gli infortuni ci condizionarono».

Tra i due quale fu l'esonero più doloroso?

«Comunque il primo. Giocammo e perdemmo il sabato a Udine, ma di fatto ero stato esonerato già dal martedì».

Potesse tornare indietro, che cosa non rifarebbe?

«Io ho cercato di perseguire con schiettezza e credibilità l'obiettivo che tutti insieme c'eravamo prefissati. E in questo penso di essere stato coerente. Poi ripeto, se fossi stato più furbo e opportunista... In ogni caso col tempo certe scelte si sono rivelate quelle giuste».

Si riferisce ai successi ottenuti poi da Ballardini e Allegri?

«Mi riferisco soprattutto ai protagonisti. Matri oggi è quello che è. Conti idem. Biondini si è affermato. All'epoca Canini era reduce da un infortunio, ma anche lui ha fatto il suo percorso. In difesa giocavano Bianco e Lopez che hanno dato prova di grande affidabilità per anni. Pisano è cresciuto, anche se poi ha dovuto fare i conti con gli infortuni».

Ha dimenticato un nome.

«Agostini?»

Esatto. Quella di sacrificarlo per Del Grosso fu forse una delle scelte meno felici.

«Del Grosso aveva già lavorato con me, Agostini partiva svantaggiato sul piano delle conoscenze. È stata una scelta tecnica».

Questa potrebbe essere, per esempio, una di quelle cose che non rifarebbe?

«Ho fatto quello che in quel momento ritenevo più giusto. Negli anni successivi Agostini si è riappropriato del suo ruolo e ha sempre giocato. Oggi è maturato tanto, è un giocatore affidabile. Non che all'epoca non lo fosse, ma il ruolo del terzino è particolare, un po' come quello del portiere. Non si può fare una rotazione come per esempio con gli attaccanti. Lo cambi se fa proprio male male».

Quindi prenderebbe oggi Agostini?

«Lo prenderei sicuramente».

Il suo rapporto con Cellino?

«Improntato sulla professionalità. Lui ha dimostrato e continua a dimostrare di essere un grande imprenditore, sa scegliere i giocatori giusti e la sua società lavora molto bene. Ma il modo di fare va spesso a cozzare con la credibilità dell'allenatore».

Vi siete più risentiti dopo il famoso rifiuto?

«No, giusto incrociati e salutati quando ero a Siena».

Che cosa gli dirà domenica se lo incontrerà?

«Lo saluterò volentieri e gli farò i complimenti per quello che sta facendo il Cagliari da anni ormai. Quando tutto finisce in un rapporto di lavoro va sempre bene, ognuno con le proprie ragioni. Non va più bene se si va oltre».

A proposito: che idea si è fatto del Cagliari di Donadoni?

«È una squadra molto tecnica, più forte, tanto per intendersi, del Cagliari di Suazo, che invece era più lavoratore e piratesco. Ho rivisto giusto oggi la gara di domenica contro la Fiorentina. Giù il capello, questi giocano proprio un bel calcio».

Al passo coi tempi.

«Il calcio italiano è cambiato parecchio dal punto di vista prettamente tattico, ma non solo. Prima gli allenatori potevano essere parte in causa anche nella scelta dei giocatori, adesso sceglie solo la società. Il calcio di oggi è cambiato nei rapporti, negli interessi. È il calcio delle televisioni e del business».

Anche lei a Catania utilizza spesso la formula del trequartista.

«Non è tanto una questione di ruolo ma di interpreti. Per esempio Cossu ha così tanta qualità che rende il trequartista decisivo. Ho avuto Andrea in ritiro per venti giorni, il primo anno a Cagliari, e l'ho apprezzato proprio perché aveva il senso del gioco e una tecnica straordinaria. Poi inavvertitamente è andato via l'ultimo giorno di mercato, con mio grande rammarico. Sono andato dall'allora direttore sportivo Cinquini e gli ho chiesto "ma perché abbiamo dato via Cossu?"».

E lui che cosa ha risposto?

«Non glielo dico. L'importante è che alla fine Andrea sia tornato a Cagliari e abbia avuto la possibilità di dimostrare il suo valore».

Anche Allegri è passato per l'Isola e ora allena il Milan capolista: è un buon segnale per voi tecnici giovani?

«Max si merita tutto questo. È intelligente, preparato, bravo nella gestione. Si è trovato nel posto giusto al momento giusto. E poi sì, ha dimostrato che si può arrivare anche lì in alto».

Lei è stato per poche ore l'allenatore della Juventus.

«Acqua passata».

Chi è oggi l'allenatore ideale?

«Sul piano tecnico Del Neri, poi mi è piaciuto molto il calcio di Ventura lo scorso anno. Ma l'allenatore ideale è chi sa cambiare pelle o vestire l'abito giusto in base al club in cui lavora».

Un nome?

«Quelli che hanno cambiato molto e ovunque sono andati hanno fatto bene. Mazzarri, lo stesso Del Neri, Reja».

E Donadoni?

«Sul piano umano ha una correttezza davvero rara nel nostro mondo. Ha respirato calcio di altissimo livello. È l'immagine di uno sport corretto, pulito, ideologicamente giusto. Penso che Cagliari sia la piazza ideale per lui».

Dal suo tono di voce traspare un po' di nostalgia.

«Sono rimasto molto legato a Cagliari e alla Sardegna in generale. Soprattutto nei rapporti al di fuori dell'ambiente del calcio. Ogni volta che torno ritrovo volentieri degli amici, non sono tantissimi, ma tutti persone sincere. Il clima è straordinario, scandisce la vita. Poi c'è il mare, io sono di Giulianova e so che cosa vuol dire. Il resto quasi non conta. Tutto questo lo sto ritrovando in parte ora a Catania».

Quindi tornerebbe volentieri un giorno al Cagliari?

«Lo farò domenica, stadio Sant'Elia, ore 15».

La domanda era riferita alla panchina.

«Nella vita mai dire mai».

FABIANO GAGGINI
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