Giocava a calcio, come tutti. All'attacco, come pochi. Ed era pure bravo. Ma era sempre nervoso. «Volevo vincere». E quando si gioca in 11 dipende anche dagli altri. «Meglio uno sport individuale». Sì, molto meglio visto il finale: un titolo italiano, cinque Europei e un Mondiale militare. Più l'Oscar 1971 come miglior pugile professionista.

Ultimo di cinque fratelli nel 1956 Tonino Puddu, nato e cresciuto a Villanova, aveva 14 anni e da almeno quattro era a bottega da Iosé Carlini, lucidatore di mobili. «Sono andato a scuola al Riva ma per poco».

Si era iscritto alla Palestra Sardegna di via Barone Rossi. «C'erano tutti: Piero Rollo, Gianni Zuddas, Fortunato Manca, Paolo Melis, Ernesto e Carlos Miranda, Horacio Accavallo, Salvatore Burruni. «Si combatteva all'Amsicora davanti a quarantamila spettatori. L'organizzatore era Antonio Picciau di Monserrato». Ricorda bene la prima volta: «Siamo andati in tre, l'allenatore Lello Scano mi aveva guardato, tu hai poca voglia, invece sono l'unico rimasto. Villanova era un quartiere di campioni: a quattro-cinque porte da casa mia vivevano Salvatore Boi peso medio professionista, Franco Medda olimpionico a Roma, Paolo Vacca campione mondiale Dilettanti nel 1960, Bullitta, Paderi e Salvatore Atzeri».

Nel primo incontro c'era ma non c'era: «Ho combattuto sotto falso nome, avevo 15 anni e all'epoca non si poteva. Mi sembra di aver perso, di sicuro ho fatto chilometri di corsa sul quadrato perché quello scappava sempre».

La Marina - Il primo vero match, invece, lo ha vinto. Era il 1960. «Tra i Novizi ne ho fatti dieci e perso solo uno. Anzi, non ho mai perso: mi hanno fregato, io purtroppo per loro picchiavo molto ma non avevo la protezione dell'allenatore, non ero simpatico perché non ero ruffiano, io volevo solo quello che meritavo. Sono sempre stato un pugile vero». La svolta è arrivata per caso: «Il cognato di Cortesi che vendeva moto in via Dante era dirigente della boxe a Forlì, mi aveva visto e fatto una proposta». Si era trasferito e di lì a poco pure arruolato nella Marina militare. «Ho trovato un grande maestro, Carlo Repetto». Il primo match della nuova vita è stato ad Ascoli: «Avevo vinto nettamente ma mi avevano dato per sconfitto». Si era tanto arrabbiato che gli avevano concesso una licenza. Al ritorno aveva trovato la convocazione in Nazionale. «In azzurro ho combattuto 23 volte e ho sempre vinto».

La medaglia d'oro - Nel 1965 ha conquistato il Mondiale militare a Monaco: «Lì non c'erano intrallazzi né niente, ho battuto gente che ha fatto le Olimpiadi di Tokyo e poi sarebbe andata in Messico». Tonino Puddu no. «Ho scelto il professionismo: il mio obbiettivo era il Mondiale dei pesi leggeri». È salito sul ring a Los Angeles nel 1973: «Ho perso per ko tecnico, non riuscivo a muovere braccia e gambe, mi avevano messo qualcosa nella bibita, ero drogato. Ambiente brutto, in America sono terribili, mica ti fanno vincere». Prima, però, c'è stato il titolo italiano del 1970, «39 incontri vinti tutti prima del limite», e anche un accordo-truffa respinto al mittente: «Era il 1969, il mio procuratore Umberto Branchini mi aveva proposto il Mondiale superpiuma con Renè Barrientos, l'ho mollato, io non volevo comprare il titolo. E me l'ha fatta pagare». A Los Angeles. Ancora non gli va giù. Nel frattempo c'è stata la straordinaria vittoria del 31 luglio 1971 a Cagliari su Miguel Velasquez: titolo europeo pesi leggeri per ko alla quarta ripresa davanti a venticinquemila spettatori. «Mi hanno portato in spalla dallo stadio Amsicora fino a Villanova». Un trionfo.

Le botte - Una settimana dopo si è sposato con Rita dalla quale ha avuto tre figli. «Il maschio aveva iniziato col pugilato ma poi la mamma non lo ha più mandato». Eppure è sempre andata a vedere gli incontri di Tonino Puddu: «Era contenta, sì, ma se prendevo cazzotti no». Ne prendeva pochi, in verità. «Devo dire che ho preso più colpi negli incontri che ho vinto». Ed è il riconoscimento del valore degli avversari che solo i grandi campioni sanno tributare. Il presidente della Repubblica Cossiga lo ha addirittura insignito dell'onorificenza di cavaliere della Repubblica. «Mi allenavo la mattina al campo Coni o a Monte Urpinu e la sera altre due ore. D'inverno ero spesso a Fonni dove la famiglia Cualbu aveva allestito per me una palestra. Nei venticinque giorni precedenti gli incontri mi trasferivo allo stadio Flaminio di Roma».

I rossoblù - Aveva fan d'eccezione: Riva e Albertosi. «Mi sono allenato spesso con i rossoblù dello scudetto, Gigi era il mio primo tifoso, veniva sul ring a salutare». Ma è rimasto coi piedi per terra. «Lavoravo come restauratore di mobili, mi è sempre piaciuto e così passavo l'ora con gli amici». Anche se la boxe gli dava più che da vivere. «Da professionista ho guadagnato abbastanza».

Ha combattuto fino al 1975, aveva 31 anni, poi è passato dall'altra parte: «Ho organizzato sei campionati del mondo e non so quanti Europei». Dal 2013 è in pensione.

«In strada ero un po' discolo, poi in palestra ho conosciuto grandi campioni che mi hanno insegnato a vivere. Col pugilato si impara l'autocontrollo: io prima litigavo, dopo ho imparato a sopportare. Il pugilato non è fare a cazzotti, la bellezza di questo sport è salire sul ring e confrontarsi con l'avversario rispettando le regole. Vince il più bravo, il più forte, il più coraggioso». Al nipote di 13 anni, Leonardo, consiglierebbe senz'altro i guantoni: «Bisogna essere portati e avere qualità per diventare un campione ma il resto si impara, soprattutto a soffrire, altrimenti non si va da nessuna parte». Neanche fuori dal ring. «Educazione, rispetto e umiltà sono l'insegnamento che dà la boxe come tutti gli sport». E anche la forza di dire no a un Mondiale deciso a tavolino. Campioni si diventa.

Maria Francesca Chiappe
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