La pandemia Covid-19, erroneamente considerata conclusa, rappresenta allo stato attuale un importante problema clinico e di sanità pubblica. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato la fine dell'emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale ma la circolazione del virus, al pari della sua evoluzione in nuove varianti virali, continua a rappresentare una sfida epidemiologica.

Attualmente, i numeri forniti dagli organismi nazionali e internazionali sottostimano l’impatto epidemiologico conseguentemente alla ridotta attività di sorveglianza virologica mediante test antigenici e molecolari. Tuttavia, nelle ultime settimane è stato registrato un incremento delle infezioni in diverse parti del mondo: nel Regno Unito, ad esempio, i casi sono aumentati del 24%, con incremento delle ospedalizzazioni (da 0,8 a 1,17 per 100.000), incluse quelle in terapia intensiva.

L’infezione da SARS-CoV-2 si estrinseca in quadri clinici privi di o con sintomi successivamente all’ingresso del virus nelle vie respiratorie. Dopo l’evolversi di una fase acuta, caratterizzata primariamente da una forma clinica interessante le alte e basse vie respiratorie, la maggior parte dei soggetti infettati va incontro a una fase di guarigione clinica. Tuttavia, alcuni individui possono avere sintomi persistenti o sviluppare nuovi sintomi dopo la fase acuta, la cui durata può essere di settimane, mesi, o anni. Diversi nomi sono stati adottati per descrivere tale condizione: Long Covid, sindrome post-Covid19, o sequele post-acute dell’infezione da SARS-CoV-2. La proporzione di soggetti che hanno sviluppato il Long Covid durante le differenti fasi della pandemia è variata dal 10% al 30%. Durante la circolazione della variante virale omicron è stato evidenziato un rischio di sviluppare il Long Covid di circa il 10%, che incrementa a quasi il 20% in caso di reinfezione da parte della stessa variante virale. Alla luce dell’altissima incidenza dell’infezione da SARS-CoV-2 il numero dei soggetti con Long Covid è elevato ma sottostimato alla luce della scarsa consapevolezza e conoscenza dei pazienti e del personale sanitario sul rischio e sulla tipologia dei sintomi. Si ipotizza che almeno 65 milioni di individui possiedano allo stato attuale sintomi persistenti conseguenti all’infezione virale.

Secondo l’Oms, la diagnosi di Long Covid andrebbe posta in presenza di sintomi a 3 mesi dall’inizio del Covid-19, persistenti da almeno 2 mesi, non spiegabili da una diagnosi alternativa.

La proporzione di soggetti colpiti è più elevata negli individui di età uguale o superiore ai 65 anni (25%) e di sesso femminile (18% contro il 12% nei maschi). I soggetti residenti in Paesi a basso e medio reddito, coloro che vivono in comunità o gruppi sociali svantaggiati presentano una elevata prevalenza di Long Covid, ad ulteriore riprova che i fattori socioeconomici sono determinanti.

L’origine non è stata chiarita: si ipotizza il ruolo delle varianti virali, una alterazione dell’endotelio dei vasi sanguigni (rivestimento interno costituito da singolo strato di cellule), effetti del ricovero in degenza ordinaria ed in terapia intensiva, una alterazione della risposta infiammatoria ed immunologica al virus durante l’infezione acuta, e sequele del Covid-19 sviluppato in maniera severa, presenza di malattie concomitanti al momento dell’infezione da SARS-CoV-2.

Molti individui con Long Covid non sono in grado di tornare al lavoro dopo un anno dall’infezione. In uno studio canadese è stato evidenziato come 1/5 dei sopravvissuti al Covid-19 abbia riportato persistenti limitazioni nelle attività quotidiane, con proporzioni variabili in funzione della severità della malattia in fase acuta (2,5% per soggetti senza sintomi fino al 36% per pazienti con malattia severa).

La percentuale di coloro che sviluppano Long Covid dopo ospedalizzazione è pari al 50%-70%, al 10%-12% per soggetti esposti a vaccinazione.

I sintomi ed i disturbi clinici (più di 200) lamentati dai pazienti interessano la sfera fisica, mentale, e cognitiva, con il rischio potenziale di un interessamento clinico di moltissimi organi.

In particolare, sono stati descritte alterazioni del sistema nervoso centrale, del sistema cardio-vascolare, del sistema respiratorio, del sistema gastro-intestinale, e muscolo-scheletrico, associate ai seguenti sintomi e disturbi clinici: aritmie cardiache, miocardite, insufficienza cardiaca, dolore toracico, alterazioni respiratorie (dispnea e tosse, fibrosi polmonare), diarrea o stipsi, stanchezza già dal momento del risveglio, intolleranza allo sforzo fisico, fatica, depressione, ansia, disturbi da stress, ictus, malattia di Alzheimer, disturbi del sonno (alterazione del sonno od insonnia), perdita di memoria a breve termine e problemi di concentrazione (nebbia cerebrale), alterazioni cognitive, olfattive, e del gusto.

La debolezza muscolare e la fatica sono tra i disturbi più frequentemente lamentati tra i pazienti ospedalizzati per Covid-19 (30%); tuttavia, rigidità articolare, dolori muscolari ed articolari interessano molti pazienti con disturbi muscolo-scheletrici. L’interessamento neuro-muscolare persistente ha riguardato più frequentemente pazienti sottoposti a ventilazione meccanica invasiva in terapia intensiva.

Le conseguenze di alcune forme cliniche hanno avuto ripercussioni anche sul nucleo familiare con elevata prevalenza di disturbi da stress post-traumatico.

Molti pazienti non hanno ricevuto una diagnosi appropriata ed un conseguente inquadramento terapeutico: ad alcuni soggetti con sintomi è stata attribuita una condizione ipocondriaca, mentre in altri casi è stata eseguita valutazione diagnostica parziale per complessi casi clinici. La diagnosi di Long Covid è complicata da differenti fattori: interessamento di molti sistemi con sintomi variegati e non specifici. Al fine di fornire una diagnosi accurata ed interventi terapeutici mirati è necessario un approccio coordinato multi-specialistico, con clinici e professionisti sanitari appartenenti a diverse specialità mediche che affrontano contestualmente il singolo caso clinico, in presenza di specifici percorsi diagnostico-terapeutico-assistenziali. È fondamentale l’apporto dei medici di medicina generale al fine di eseguire uno screening clinico nella popolazione generale ed una successiva indicazione alla consulenza specialistica.

L’elevata prevalenza di tale condizione clinica ha implicato ed implicherà l’uso di considerevoli risorse assistenziali (con aggravio economico-finanziario per i servizi sanitari), una ridotta qualità della vita dei pazienti, una contrazione della forza-lavoro.

In Italia sono stati presentati numerosi progetti scientifici ed assistenziali relativi al Long Covid; in particolare, l’Istituto Superiore di Sanità ha presentato uno studio orientato a comprendere meglio la natura clinica del problema, ad offrire nuovi standard per migliorare la pratica clinica, la qualità delle cure, e l’organizzazione dell’assistenza, con inclusione di rappresentanti dei pazienti, al fine di fornire una prospettiva in grado di definire priorità e preferenze di coloro che sono affetti da tale condizione.

La ricerca scientifica potrà svolgere un ruolo cruciale nel prossimo futuro identificando cause, gruppi a rischio, meccanismi alla base dell’insorgenza dei diversi disturbi clinici, terapie. Allo stato attuale, l’intervento clinico si basa sull’identificazione di sintomi potenzialmente trattabili e sulla prescrizione di terapie e piani riabilitativi adottati in condizioni cliniche non Covid-19 dalle caratteristiche simili.

Alla luce delle ripercussioni individuali, sui sistemi sanitari nazionali ed economico-finanziari conseguenti all’elevato carico di malattia, sarà cruciale ripensare a modelli di cura e prevenzione vaccinale e non-vaccinale efficaci ed efficienti, capaci di limitare le infezioni e re-infezioni virali.

Giovanni Sotgiu

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