Una tecnica d’avanguardia per le malattie cardiache rare

Ho letto di una ricerca riferita alla possibilità di eseguire un intervento chirurgico capace di limitare i rischi di morte nei bambini con rare malattie cardiache. Di cosa si tratta?

Abbiamo recentemente pubblicato due ricerche scientifiche sull’argomento. Nella prima vengono presentati i risultati ottenuti in 125 pazienti affetti dalla sindrome del QT lungo (prima causa di morte improvvisa nei giovani, di cui fa frequentemente notizia quella tra gli sportivi) in 50 anni di interventi di denervazione cardiaca simpatica di sinistra. Tutti gli interventi sono stati eseguiti dagli stessi due chirurghi (Professor Odero e dottor Pugliese) sia in Italia (Milano e Pavia) che nei vari Paesi (Cina, Russia, Olanda, Israele), ovviamente in casi selezionati. Questo studio ha dimostrato, con un follow-up estremamente lungo, la grande efficacia di questo intervento chirurgico che viene effettuato in meno di un’ora, senza aprire il torace, spesso mediante chirurgia robotica e con dimissione entro 2-4 giorni. Il secondo, scritto insieme (Schwartz e Ackerman, responsabile per le aritmie di origine genetica della famosa Mayo Clinic di Rochester), modifica di fatto le linee guida esistenti. Questo perché esprime il parere univoco proveniente dai due centri con la maggiore esperienza al mondo su queste malattie indicante con chiarezza come la denervazione cardiaca simpatica di sinistra sia non solo efficace, ma riesca anche a garantire una qualità di vita di molto superiore a quella di quei pazienti che ricevono un defibrillatore impiantabile, efficace ma troppo spesso causa gravi complicazioni (25% entro 5 anni dall’impianto). Uno dei problemi più drammatici è quello che quando il defibrillatore dà uno shock salvavita – che causa dolore e paura nei pazienti – questo spesso provoca una serie subentrante di aritmie che a loro volta generano nuovi shock elettrici. Il lavoro di Schwartz e Ackerman che insieme hanno fatto fare più di 500 di questi interventi dimostra che la denervazione riduce di oltre il 95% questi shock, con un grande impatto positivo sulla qualità di vita. Ovviamente anche noi usiamo i defibrillatori, ma molto meno spesso che in altri centri perché siamo convinti che con uso intelligente delle terapie disponibili abbia reso molto piccolo il numero di pazienti che ne hanno davvero bisogno. Perché è ancora di uso molto più comune l’impianto di defibrillatore rispetto alla denervazione? Vi sono varie ragioni. Una è che molto spesso sono gli elettrofisiologi a vedere questi pazienti e per loro è più semplice pensare ad un defibrillatore che consigliare un intervento chirurgico sui nervi cardiaci, con i quali hanno poca dimestichezza. Un’altra è che con il defibrillatore il medico protegge anche sé stesso, in quanto la percentuale di protezione dalla morte improvvisa con il defibrillatore è più alta che con la denervazione, ma a prezzo di una qualità di vita inferiore. Inoltre mentre in ogni ospedale si può impiantare un defibrillatore, per la denervazione cardiaca, che richiede una specifica e lunga esperienza, vi sono pochi centri.

Peter Schwartz, Direttore del centro per lo studio e la cura delle aritmie cardiache di origine genetica, IRCCS Istituto Auxologico Italiano

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L’attività fisica e i pazienti oncologici

Dopo un trattamento per tumore, è importante l’attività fisica e come si dovrebbe svolgere?

I trattamenti a cui sono sottoposti i pazienti oncologici hanno spesso ripercussioni negative sul loro stato di salute psico-fisico, quali ad esempio aumento dell’astenia, diminuzione della forza muscolare, problemi dell’apparato cardiovascolare, respiratorio, osteo-articolare, disturbi del sonno, depressione e ansia. L’attività fisica adeguatamente somministrata può rappresentare un importante strumento per contrastare questi effetti. Le componenti da allenare per un paziente oncologico sono la resistenza, la forza e la flessibilità. L’attivazione di grandi gruppi muscolari durante l’attività aerobica migliora la fitness cardiorespiratoria ottimizzando l’utilizzazione dell’ossigeno da parte dei muscoli, contrastando l’aumento del grasso corporeo, connesso con il rischio di recidiva della malattia; così come gli esercizi per l’incremento della forza consentono di ripristinare la massa muscolare. Inoltre, l’attività fisica regolare aiuta a migliorare il benessere psicologico riducendo stati di ansia e depressione con effetti positivi sull’umore e sull’autostima.

Claudia Cerulli, dottore di ricerca in Attività Fisica e Salute, Università degli Studi di Roma Foro Italico

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Come trattare la gotta con le attuali terapie

Il mio medico di base mi ha diagnosticato un principio di gotta. Come posso esserne sicuro. Si può curare?

La gotta è una malattia causata dall’aumento dell’acido urico nel sangue che può depositarsi in cristalli a livello delle articolazioni e di altri tessuti causando infiammazione molto intensa. Spesso si accompagna a problemi renali, metabolici (diabete e sovrappeso) e cardiovascolari che ne aggravano la prognosi. È più frequente nel sesso maschile, almeno sino alla menopausa, e si manifesta con dolore molto intenso e gonfiore alle articolazioni, molto caratteristica è la localizzazione all’alluce (nota come podagra), alle caviglie e alle ginocchia. L’aumento della uricemia nel sangue, l’intensità dell’infiammazione e il riscontro di cristalli nel liquido sinoviale, portano a una diagnosi di certezza che in genere non è difficile. Se non trattata nel tempo la gotta può cronicizzare e causare danni irreversibili e disabilità. Il trattamento dell’attacco acuto mira alla risoluzione dell’episodio infiammatorio mentre la terapia successiva dovrà controllare il livello dell’acido urico nel sangue per prevenire le recidive. Se assunta regolarmente la terapia controlla molto bene la gotta.

Alberto Cauli, direttore della Unità complessa di Reumatologia, Policlinico di Monserrato AOU e Università di Cagliari

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Il fattore ereditario nei polipi intestinali

Ho 21 anni e mio padre e mio nonno hanno avuto polipi intestinali. Sono anche io a rischio? Come posso prevenirli?

Il carcinoma colon rettale è una delle neoplasie più frequenti, in particolar modo nei Paesi sviluppati e industrializzati. È al terzo posto per incidenza negli uomini e al secondo nelle donne dopo il carcinoma mammario. Nel 75% dei casi il tumore è sporadico, quindi non legato a nessuna causa predisponente, nel 5-7% è legato a malattie ereditarie o infiammatorie croniche intestinali, mentre nel 15-20% dei casi è associato a familiarità. Questo vuol dire che chi ha un parente di primo grado che ha avuto un tumore del colon o polipi, ha un rischio di 2-3 volte superiore rispetto alla popolazione generale di sviluppare questo tumore nel corso della vita. Il rischio è ancora più alto se i parenti sono due e se sono stati diagnosticati prima dei 50 anni. Il paziente che ha avuto parenti con polipi dovrà sottoporsi a screening che non sarà la ricerca del sangue occulto fecale dopo i 50, ma la colonscopia all’età di 40 anni. La colonscopia permette, se presenti, di evidenziare e asportare i polipi in una fase precoce, precancerosa, interrompendo così la possibilità che possano degenerare.

Raffaele Orrù, medico chirurgo specialista in Gastroenterologia ed Endoscopia digestiva

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