Molti milioni di italiani hanno avuto modo di ascoltarlo e di apprezzarlo nel corso delle conferenze stampa della Protezione Civile nazionale e nei vari programmi televisivi di approfondimento sulla pandemia da coronavirus nella sua qualità di presidente del Consiglio Superiore di Sanità. Ma il Franco Locatelli, primario del reparto di oncoematologia pediatrica dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma, era già entrato nel cuore di migliaia di famiglie che hanno avuto la fortuna di incontrarlo nell’arduo cammino alla disperata ricerca di una terapia che potesse salvare la vita di piccoli pazienti la cui esistenza è stata stravolta da una malattia terribile connotata da quasi impossibile guarigione.

Grazie allo studio, alla perseveranza e alla straordinaria generosità di medici come Locatelli, colui che prima era ritenuto un malato senza possibilità di sopravvivenza oggi può dirsi un paziente che lotta e che può farcela.

Professor Locatelli iniziamo dalla Sardegna. Ha dichiarato in tv che trascorre le sue vacanze nell’Isola. Come nasce il suo amore per la nostra Regione?

"Non ho scoperto la Sardegna nei primi anni delle mie vacanze autonome, ma l’incontro con l’Isola è avvenuto un po' più di recente, e me ne sono significativamente innamorato. Quindi per me, detto che in Italia esistono anche tante altre bellissime realtà turistiche balneari o montane, l'estate ha la traduzione nella parola mare e la parola mare ha l'esemplificazione nella parola Sardegna. E poi apprezzo tantissimo quello che è l'orgoglio, la dignità e il senso di appartenenza territoriale di questa Regione".

Se fosse ministro della Salute quale sarebbe la prima cosa che cambierebbe nel sistema sanitario nazionale?

"Partiamo da due presupposti. Il primo è che l'Italia ha uno dei sistemi sanitari più invidiati al mondo perché, e di questo ce ne dovremmo ricordare spesso tutti come cittadini italiani, abbiamo la fortuna di godere di un sistema solidaristico, universalistico, che rende possibile i trattamenti più sofisticati e più costosi a tutte le persone indipendentemente da razza, censo, genere, età. Questo è un patrimonio che il Paese dovrà conservare in maniera chiara".

E il secondo?

"L'Italia ha la fortuna di avere un ministro della Salute assai capace, molto attento agli altri, con una sensibilità particolare che ha dimostrato - e ce lo dicono anche tutte le evidenze di apprezzamento che ha riscosso all'estero - di far sentire la sua presenza per ogni singola situazione che poteva mettere in difficoltà il Paese".

Quindi cosa cambierebbe?

"Premesso, appunto, il valore di un ministro della Salute formidabile che non è proprio il caso di pensare di sostituire, è ovvio che tutte le cose sono suscettibili di miglioramento. In primis questa pandemia ci ha insegnato che non bisognerà mai più accettare di disinvestire in salute".

Cioè?

"I tagli nell'ambito sanitario non dovranno più avere luogo nel nostro Paese perché rischiano altrimenti di rendere fragile il sistema sanitario nazionale. Le faccio un esempio concreto: quando è partita la situazione pandemica, in Italia, c'erano poco più di 5.000 letti di rianimazione che di fatto erano già di per sé sempre occupati per altre malattie, pensiamo agli incidenti stradali, le grandi chirurgie, i trapianti d'organo. Se non ci fosse stata la capacità di mettere in disponibilità ulteriori 3.600 posti letto nelle rianimazioni il Paese sarebbe andato in grande difficoltà anche perché, al tre di aprile, giorno del maggiore picco di ricoveri in terapia intensiva, di quei famosi 5.000 letti ne avremmo già avuti più di 4mila occupati".

In base alla sua esperienza, cosa suggerirebbe ?

"La sfida adesso è rendere questi letti strutturalmente disponibili sempre, cioè consolidati, anche per riportare l'Italia in linea con quelli che sono gli standard internazionali in termini di posti letto ogni 100.000 abitanti. È chiaro che la medicina di territorio, tutte quelle che sono le cure primarie e la prevenzione vanno implementate e ulteriormente rafforzate e ottimizzate anche alla luce dell'osservazione che noi siamo un Paese in cui l'età media è abbastanza elevata".

E questo quali conseguenze comporta?

"Siamo una Nazione composta in maggioranza da soggetti in età avanzata piuttosto che giovani, e peraltro non sempre si invecchia in salute pur vivendo tanto. Un sano invecchiamento è chiaramente un'altra priorità da conquistare".

Riavvolgiamo il nastro e torniamo a febbraio scorso. Che esperienza umana e professionale è stata per lei questa tragica emergenza sanitaria?

"Gli accadimenti derivati dalla pandemia da Covid-19 hanno posto sotto estrema pressione, nel nostro Paese, il Sistema Sanitario Nazionale per cercare di offrire la migliore risposta terapeutica per i malati e di prevenire la diffusione del contagio in una situazione in cui ci si è trovati di fronte ad una ondata epidemica marcatamente elevata soprattutto in alcune aree del Paese, con riferimento al nord".

Lei è bergamasco. Un dolore straziante per lei e per la sua gente.

"Dal punto di vista umano, anche in ragione della mia origine bergamasca, ma non sarebbe stato diverso se anche fossi nato in un’altra città, il dolore più grande può essere personificato dalle immagini dei camion militari con le bare che lasciano il cimitero di Bergamo. Questo ha dato un’idea profonda di quanto questa pandemia sia andata a incidere sulle popolazioni più fragili e su quel patrimonio assoluto che sono i nostri anziani e le nostre radici rispetto alle quali anche le generazioni che stanno adesso crescendo devono trovare la linfa per una proiezione nel futuro".

Abbiamo imparato a conoscere anche tanti medici valorosi e operatori sanitari coraggiosi.

"L'Italia è un Paese popolato da tanti straordinari operatori sanitari e non uso a caso il termine operatori sanitari perché la pandemia da Covid-19 ci ha reso chiara testimonianza di come non solo i medici ma anche gli infermieri abbiano svolto un ruolo che definire ammirevole è ancora riduttivo. È stata, anche da un punto di vista umano e direi professionale, l’occasione per incontrare persone di grande valore che si sono spese nelle rispettive competenze e nei rispettivi ambiti per cercare di dare all’Italia, e a tutte le persone che nel nostro Paese vivono, le migliori condizioni per affrontare una situazione come questa rispetto alla quale non va neanche mai dimenticato che l’Italia è stato il primo Paese occidentale ad aver subito un attacco virale di tale portata".

L’Italia è stata presa a modello dagli altri per adottare misure anti contagio efficaci?

"Certo, dopo la Cina, noi siamo stati di fatto il Paese che, per primo, ha dovuto affrontare in Europa e nel mondo occidentale l’ondata epidemica. Quindi, in un certo senso, i nostri medici hanno dovuto svolgere un ruolo da pionieri nell’implementazione di misure che poi i colleghi stranieri hanno potuto prendere almeno come punto di riferimento per adottare azioni analoghe o per rifinirle rispetto ad altri contesti nazionali".

Il ruolo istituzionale che ricopre l’ha fatta entrare nelle case di tutti gli italiani che si sono affezionati alla sua figura di scienziato gentile e competente, ma lei è prima di tutto uno studioso impegnato per trovare nuove terapie utili a curare i suoi malati. A che punto sono le sue ricerche dopo i primi grandi successi?

"Prima di rispondere mi faccia dire che io ho provato a servire il Paese nel mio ruolo istituzionale cercando di mettere a disposizione quelle che sono le mie competenze, la mia passione e la mia attenzione all'altro, motivata dalla professione che esercito, proprio per cercare di contribuire, assieme a tante altre persone, a gestire questa emergenza sanitaria. Nonostante possa aver avuto più visibilità di altri colleghi il mio ruolo non è stato più importante di quello di tanti operatori sanitari che, sul campo e fattivamente, si sono dedicati alla cura dei malati di Covid-19 riservando loro anche quelle attenzioni umane che venivano meno nel contesto familiare in ragione della necessità di isolare questi malati. Per quel che riguarda la mia professione quello che ho sempre avuto come obiettivo era di non perdere il contatto con i bambini malati di tumore e di altre gravi malattie perché quella è la mia professione, è il lavoro che amo e che non cambierei per nulla al mondo. Nell'ospedale dove lavoro, il Bambino Gesù di Roma, abbiamo sviluppato due approcci terapeutici con le cellule geneticamente modificate (cellule CAR-T) per essere reindirizzate sul bersaglio tumorale in un ambito completamente accademico sia per la cura delle leucemie linfoblastiche acute sia anche per la cura del tumore solido più frequente dell'età pediatrica che si chiama neuroblastoma. Ma visto che parliamo principalmente ai sardi, mi faccia citare un filone di ricerca per me molto importante e che proprio in questa terra trova un numero assai elevato di malati. È la terapia genica della talassemia: in questo caso, quello che si fa è modificare non le cellule del sistema immunitario di un paziente ma le cellule staminali che producono tutti gli elementi del sangue introducendo una coppia sana del gene difettivo cioè del gene che codifica per l'emoglobina".

Quali sono le ricadute sui malati?

"I risultati sono assolutamente entusiasmanti perché si riesce a rendere i pazienti indipendenti dal fabbisogno delle trasfusioni, quindi a migliorare clamorosamente la qualità di vita di questi malati in circa il 90% dei casi. Un dato formidabile soprattutto se si pensa che la terapia genica, a differenza del trapianto di midollo osseo, non necessita di un donatore compatibile e quindi può essere applicata a tutti e può essere anche impiegata in quei malati che hanno un'età tale per cui un trapianto non sarebbe ipotizzabile per gli eccessivi rischi che lo connotano. Ritengo questo un periodo di straordinarie opportunità biomediche e biotecnologiche che hanno in sé le caratteristiche per cambiare la storia naturale di molte malattie e per rendere la vita di tanti malati o recuperabile, come per le leucemie, o migliorabile, come nel caso dei pazienti talassemici che smettono di fare la trasfusione".

L.P.
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