Potrebbe esserci l'inquinamento dietro l'aumento dei casi di dermatite atopica, soprattutto nell'infanzia. È il tema sottolineato nel corso del congresso nazionale della Società Italiana di Dermatologia e Malattie Sessualmente Trasmesse (Sidemast) in corso da oggi al 31 maggio a Giardini Naxos.

La dermatite atopica è una malattia cutanea infiammatoria cronica. È caratterizzata da eczemi con intenso prurito e ha un importante impatto negativo sulla qualità di vita dei pazienti. È in costante aumento nei paesi industrializzati: si stima che in Europa e Usa colpisca circa il 20% dei bambini e il 7-14% degli adulti.

«È noto che variabili climatiche come la temperatura, l'umidità dell'aria, il carico di pollini e l'esposizione ai raggi UV influenzino i segni e i sintomi della dermatite atopica», afferma Luca Stingeni, ordinario di Dermatologia all'Università di Perugia e direttore della Clinica Dermatologica dell'Azienda Ospedaliera di Perugia. «Tuttavia, più recentemente, l'inquinamento ambientale è stato segnalato come fattore di induzione o aggravamento della patologia atopica attraverso molteplici meccanismi biologici. Tra questi, la formazione di radicali liberi dell'ossigeno, lo stress ossidativo, la compromissione della barriera cutanea e una risposta infiammatoria», aggiunge Stingeni.

Particolarmente vulnerabili all'inquinamento sono i neonati, che fisiologicamente hanno una barriera cutanea immatura. «In uno studio tedesco condotto nel 2009 è stato dimostrato che la vicinanza alle grandi arterie stradali e la maggiore esposizione ad aria inquinata (in particolare, al particolato PM2.5) durante la prima infanzia, sono associati a una maggiore prevalenza di dermatite atopica», aggiunge Stingeni. Non solo: secondo la ricerca «l'esposizione al biossido di azoto e particolato prima della nascita (soprattutto nel primo trimestre di gravidanza), aumenterebbero significativamente il rischio di sviluppo di dermatite atopica prima dei 6 mesi di età», conclude l'esperto.

(Unioneonline/v.l.)

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