“Il regolamento di Dublino sarà sostituito da una nuova governance europea della gestione delle migrazioni, avrà una struttura comune per quello che riguarda gli asili ed i rimpatri ed avrà anche un meccanismo di solidarietà molto forte ed incisivo”. Lo ha annunciato lo scorso 16 settembre Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione Europea, proprio in occasione del suo intervento di chiusura al Parlamento, sottolineando, peraltro, come “la forza dell’Unione (stia) nell’unire le forze” perché “salvare vite in mare è un dovere, e i governi che fanno di più e sono più esposti ai flussi devono poter contare sulla solidarietà” dell’Unione nel suo complesso. Il Disegno, che si distingue chiaramente per avere una connotazione altamente politica e programmatica, sarà rivelato nel dettaglio il prossimo 23 settembre con l’obiettivo di sostituire integralmente una stratificazione normativa arrugginita siccome rivelatasi oramai inefficace ed in qualche modo iniqua nell’ambito di un contesto geopolitico nel quale non solo le istituzioni europee nella loro integralità, e per prime, sono state per anni gravemente latitanti, ma anche nel quale le varie forze partitiche interessate continuano a rivelarsi scarsamente inclini, a tutt’oggi, nel cercare di far propria quella fondamentale compostezza pragmatica, emancipata da pregiudizi ideologici, che invece sarebbe utile nel trattare in maniera decisiva le innumerevoli complicazioni riconnesse ai fenomeni migratori di massa ed alle spinose questioni concernenti l’integrazione sociale. Nessun problema, pertanto, perlomeno per quanto concerne il piano delle pure e semplici intenzioni: a noi non resta che prenderne atto pur restando saldamente ancorati nella consapevolezza che la sollecitudine verso qualsivoglia logica di positiva accoglienza continui a sussistere e resistere, nella gran parte dei casi, unicamente a livello concettuale siccome imprigionata, quella stessa sollecitudine si intenda, in un clima di dolorosa ipocrisia dilagante che favorisce, nell’immaginario collettivo, la rappresentazione di una Europa tutt’altro che liberale nella sua staticità. Ma intendiamoci, e sia ben chiaro: che si tratti di una dichiarazione dalla portata rivoluzionaria, seppure certo non nuova nei suoi contenuti, appare innegabile, come pure appare innegabile, tuttavia, e per converso, che si tratti parimenti, e nel contempo, di una dichiarazione forse politicamente ancora prematura ed in qualche modo estemporanea nella sua incerta ingenuità siccome doverosamente necessitata, come da più parti sottolineato, dall’evolversi frenetico delle circostanze contingenti le quali, nella loro drammatica complessità, hanno trovato il più triste epilogo nel divampare di quel dannato incendio che ha distrutto il campo profughi di Moria, nell’isola di Lesbo, lasciando senza alloggio e senza viveri ben più di dodicimila persone circa. Giulio Andreotti, anni orsono, dall’alto della sua saggezza e della sua indiscussa esperienza politica, aveva avuto modo di sostenere che la “globalizzazione può essere una grande opportunità, senza dubbio, ma anche un grandissimo rischio, perché può essere una forma di relativo indifferentismo” soprattutto allorquando, aggiungo umilmente io con riferimento alla materia che ci occupa, si sia fin’ora fallito proprio nel proposito di ricondurre i fenomeni migratori di massa nel contesto del delicato processo di “mondializzazione” riconoscendone il carattere strutturale nell’ottica di concepirli, di conseguenza, come parte integrante e fondante dell’indotto economico globale. Se dunque tali sono i termini della questione, allora risulta piuttosto difficile riuscire a credere che quelle “dichiarazioni” della Presidente Ursula von der Leyen (le quali ricordano, sul piano contenutistico, quelle inutilmente consegnate alla memoria storica da Ralf Dahrendorf circa una trentina di anni fa) possano andare al di là del puro e semplice “opportunismo” e “decisionismo” politico imposto dall’esigenza di evitare la precoce implosione del sistema Europa, il quale, ad onor del vero, vorrebbe illusoriamente reincarnarsi in una dimensione solidaristica ma, nel caso specifico, non può che incontrare lo scoglio più duro proprio nella “resistenza attiva” foraggiata dall’ideologia neo-populista la quale, all’evidenza, ha rinvenuto, e continua a rinvenire, la sua espressione più concreta nell’incapacità dei vari Paesi Membri di andare al di là del sentimento comune “di pancia” fieramente arroccato nel voler continuare a percepire i flussi come minacce per l’occupazione, per la sicurezza sociale e, più in generale, per l’ordine pubblico nazionale. Fantapolitica spicciola insomma, per dirlo chiaramente. Eppure, ciò nonostante, quella relativa alle migrazioni è stata da sempre una questione estremamente dibattuta per essere divenuta, col tempo, un comodo strumento di protesta e di propaganda politica in un momento storico in cui non solo l’Europa viene sempre più concepita come puro e semplice pretesto, ma anche in cui l’attenzione minuziosa per la tutela dei confini nazionali ha decisamente oltrepassato la misura divenendo espressione e paradigma di una distorta concezione della sovranità statale di cui la Lega per Matteo Salvini Premier, in Italia, è stata ed è portavoce convinta: il furore, o meglio l’ardore nazionalista ha invaso l’intero perimetro europeo assuefattosi negli ultimi tempi al realismo levantino euroscettico il quale, a sua volta, ha saputo rinvenire la sua massima espressione proprio nel timore riconducibile alle “invasioni incontrollate”. In un contesto siffatto, offrire una lettura politologica significativa del fenomeno nel suo complesso non è quindi impresa agevole specie allorquando i buoni propositi (quelli di Ursula von der Leyen nel caso specifico) non siano accompagnati da una percentuale apprezzabile di consenso sociale che consenta di incidere efficacemente e positivamente sulle dinamiche della geopolitica mediterranea e quindi sul controllo consapevole della pressione migratoria. Sarà il “come le nostre società” decideranno di “tratta (re) i migranti” a determinare “la possibilità di costruire una società umana fondata sulla parità dei suoi membri nella giustizia, nella democrazia, nella dignità e nella sicurezza” diceva saggiamente e profeticamente Navanethem Pillay, Alta Commissaria delle Nazioni Unite per i Diritti Umani. Tanto più quando, le discussioni politiche nazionali inerenti le migrazioni e le problematiche ad esse riconnesse, siano divenute, sull’onda del populismo dilagante, epicentro di significative tensioni sociali sulla sicurezza e sulla stessa identità nazionale, minacciata, nella sua solida staticità, dal perseguimento di percorsi di integrazione destinati ad indebolire, secondo la erronea percezione comune, l’assetto dello Stato-Nazione. Il pregiudizio è sempre stato il limite, ed il populismo un ostacolo al suo superamento.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato - Nuoro)
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