Perduto definitivamente l’appeal conquistato e registrato in occasione delle elezioni “politiche” dell’anno 2018 e metabolizzata la delusione per il clima di indifferenza generale nel quale, tutto sommato, si è svolta l’udienza preliminare presso il Tribunale di Catania lo scorso 3 ottobre, Matteo Salvini tenta adesso di sopravvivere a se stesso con l’annuncio mediatico di una non meglio precisata “rivoluzione liberale” che, nei suoi intenti, dovrebbe non solo contribuire a federare un nuovo ma pur sempre inesistente centro-destra privo di leader e di progetti programmatici ma anche, e soprattutto, miracolosamente impedire l’“oscuramento” della sua immagine e del suo “ruolo” all’interno di un partito fortemente identitario oramai sempre più infastidito dal dover assistere in silenzio alle giravolte scoordinate di un Segretario “appannato e sbattuto” e sempre più desideroso, per converso, di una nuova segreteria politica di riferimento.

Il nocciolo della questione, tuttavia, secondo il mio modesto parere, risiede non tanto (e/o meglio non solo) nello stabilire se il c.d. “Cazzaro Verde”, secondo la nota definizione datane da Andrea Scanzi, abbia o meno commesso il reato contestatogli (sequestro di persona aggravato per aver impedito lo sbarco in Italia di oltre un centinaio di persone soccorse in mare dalla Guardia Costiera di bandiera “Gregoretti” nel mese di luglio dell’anno 2019), quanto piuttosto nel saper individuare e riconoscere i segni tangibili di un decadentismo “vittimistico” mal rivisitato in chiave nazional-padana insito nel generale procedimento di negativizzazione non solo della rappresentazione dell’ordinamento giudiziario nel suo complesso, descritto ingiustamente seppur volutamente come sempre meno “terzo” e, corrispettivamente quindi, come sempre più disposto a “sottomettersi” ai contorti percorsi alternativi del microcosmo governativo, ma anche della dimensione politica, spogliata delle sue qualità essenziali e quindi incapace di fungere da elemento centrale della comunicazione elettorale, ed infine, financo della stessa informazione trasformatasi, più o meno inconsapevolmente, ma senza dubbio proficuamente, in un puro e semplice strumento di promozione commerciale e di correlazione con i potenziali cittadini “elettori” attraverso cui, appunto, “la politica” stessa, specie negli ultimi tempi, si è limitata a “vende (re) un prodotto astratto ed intangibile”, un “insieme di promesse per il futuro, la cui soddisfazione non è (stata mai volutamente) immediata ma (sempre ingannevolmente) di lungo termine, vaga ed incerta” come amava sottolineare il noto Poeta Britannico O’Shaughnessy.

In un contesto siffatto, il fanatismo esibizionistico di quel che resta oggi dell’ex capitano, l’istantaneità, anche se non più fulgida, delle prestazioni offerte alle masse, l’attenzione patologica alla percentuale del proprio consenso ed alle sue oscillazioni, ed infine la “cura” dell’immagine, “casual” e volutamente disordinata, hanno contribuito grandemente alla deformazione spettacolarizzante dell’informazione e della sua stessa azione di governo siccome “naturalmente” orientate, tanto l’una quanto l’altra, all’esaltazione esasperata di “quel che le circostanze sembravano e sembrano” piuttosto che alla concentrazione sintetica su “quel che realmente quelle stesse circostanze erano e sono”. Così, tra le reti intrecciate di questo sistema, il caso Gregoretti è stato per mesi gradatamente trasfigurato in una occasione di persecuzione politica voluta dalle fantomatiche “quattro sinistre” al governo, ed il suo recente contorno, ossia la presenza di supporto di Tajani e Meloni in occasione dell’udienza preliminare, solo il pretesto per ribadire in maniera secca, generica ed acritica il “diritto della politica di prendere decisioni” pure a prescindere, sembrerebbe, dalla loro conformità alla norma imposta e voluta dall’ordinamento democratico siccome sostenute, quelle “decisioni” si intenda, dal consenso degli elettori e dalla necessità, nel caso specifico, di difendere i confini nazionali. In buona sostanza, e detto altrimenti, benchè in uno Stato moderno, fondato sui principi costituzionalmente riconosciuti, la richiesta di riconoscimento democratico del potere si presenti indissolubilmente connessa con quella necessaria del suo contenimento sul piano squisitamente giuridico, il populismo salviniano, e non solo salviniano purtroppo a quanto pare, sembrerebbe pretendere, sorprendentemente, di poterne prescindere riconoscendo nella sola volontà popolare l’unica fonte legittima del potere medesimo. Peccato che in nessun caso il solo consenso elettorale sia sufficiente a giustificare qualsivoglia scelta che venga posta deliberatamente in essere in contrapposizione con il principio di legalità e con quello, non meno importante, della tutela dei diritti fondamentali della persona garantiti dalla Costituzione e dalle Convenzioni Internazionali, come spesse volte ho avuto modo di affermare. Tanto più quando, senza comunque voler esprimere alcun giudizio di colpevolezza in merito allo specifico reato contestato all’ex Ministro dell’Interno, ma limitandomi a condurre una analisi semplice e misurata della vicenda, si vogliano prendere in considerazione talune circostanze specifiche: quella per cui non rientrava nei poteri legittimamente attribuiti al Ministro dell’Interno quello specifico di impedire lo sbarco dei naufraghi da una nave militare, quale era ed è la Gregoretti, già ormeggiata al momento del fatto in acque territoriali; e quella ulteriore per cui comunque ad una nave militare, che di per se stessa costituisce territorio dello Stato, non risultava applicabile il decreto sicurezza bis n. 53/2019 varato dal Governo nel mese di giugno di quel medesimo anno, il cui articolo 1-ter, per l’appunto, stabiliva che “il Ministro dell’Interno, ..., p (oteva) limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratt (asse) di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale”. Ebbene, nel circuito perimetrato di un contesto siffatto, pertanto, e con buona pace dell’ex capitano, i “significanti” (ossia, nel caso specifico, le condotte impeditive formalmente poste in essere nel loro fisico e verbale manifestarsi) paiono assumere un rilievo nettamente superiore rispetto ai semplici “significati” trasfigurati (la difesa dei confini della Patria in apparenza, lo svilimento del principio di stretta legalità in realtà), sebbene tanto gli uni quanto gli altri siano legati da un nesso di presupposizione reciproca concretizzantesi nella circostanza specifica per cui quegli stessi “uni” non possono esistere indipendentemente da quegli stessi “altri”. “Intelligenti pauca sufficiunt” diceva il Saggio Latino: prevarrà il principio di legalità oppure la pura e semplice investitura popolare.

Giuseppina Di Salvatore, avvocato - Nuoro
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