Ci risiamo, come sempre del resto da diversi anni a questa parte. Se Laurence Boone, Ministro francese per gli Affari Europei, ha voluto sostenere che sarebbe stato necessario vigilare sul “rispetto dei diritti e delle libertà in Italia”, di sicuro la risposta di Sergio Mattarella, sebbene tempestiva, potrebbe essere suonata quasi come una giustificazione “in limine” senza una reale forza dirompente, siccome l’affermare puramente e semplicemente che “l’Italia (saprebbe) badare a se stessa nel rispetto della Costituzione e dei valori dell’Unione Europea”, è come un voler dire tutto per non voler, e/o sapere, dire nulla di concreto nella consapevolezza intima e amara che tutto sommato, e probabilmente, potremmo “essercela cercata”.

Ma al di là di ogni doveroso “mea culpa”, il punto parrebbe essere altro e uno, uno soltanto: nessun paese membro (e non) deve e può sentirsi in dovere, prima ancora che in diritto, di farsi i fatti nostri in casa nostra, pretendendo di condizionarne le scelte politiche, sociali ed economiche come invece puntualmente accade.

La colpa, sia chiaro, è quasi certamente e soltanto la nostra, e la scarsa considerazione dell’Italia sul piano delle relazioni internazionali potrebbe essere altrettanto unicamente la punta di un iceberg se solo volessimo soffermarci a riflettere su una circostanza: quella per cui con il crollo del sistema bi-polare, ed il corrispettivo sfaldamento dei partiti protagonisti della fase costituente, la politica estera italiana è stata sostanzialmente indirizzata, ed in maniera tutt’altro che pregnante, da sporadiche figure individuali inconsistenti ed incerte (Luigi Di Maio, da ultimo, su tutte), espressione non solo di scelte di politica interna piuttosto frastagliate e discutibili, ma anche di sistemi internazionali instabili.

Dicendolo altrimenti, non possiamo continuare a nascondere che la strategia italiana in materia di politica estera sia stata tutt’altro che chiara e trasparente, smarrendo probabilmente in più di una occasione, e da ultimo con riferimento al conflitto russo-ucraino, la capacità diplomatica che aveva invece caratterizzato i governi protagonisti della prima repubblica.

In buona sostanza, se volessimo davvero essere onesti intellettualmente, dovremmo riconoscere che con lo sfaldamento del sistema bi-polare ed il conseguente indebolimento della pretesa egemonia americana sulle maggiori aree di influenza del pianeta, e con la contestuale frammentazione dei circoli di potere fra diversi Stati, l’Italia ha dovuto, suo malgrado, riorganizzare, e non sempre felicemente, i propri “fondamenti” di politica estera, giocandosela malamente tra tattica e strategia ma difettando di quella “gravitas” capace di quella forza attrattiva tale da riuscire a calamitare l’attenzione internazionale  per credibilità e competenza.

Anche da ultimo, sebbene ci si attendesse una maggiore chiarezza sul punto, il tema della politica estera, e delle sue conseguenze sulle politiche economiche interne, condizionate inevitabilmente dalla attuale collocazione internazionale del Paese, sono state soffocate nel contesto di una campagna elettorale condotta probabilmente in maniera “ipocrita” e poco convinta da parte dei vari competitor. E successivamente al voto del 25 settembre appena trascorso, la situazione, purtroppo, non ha accennato a migliorare dal momento che i leader dei vari e differenti partiti si sono ben guardati dall’esprimere la benché minima perplessità, per quanto doverosa, in ordine a scelte che hanno coinvolto il Paese in un conflitto assurdo che avrebbe dovuto e potuto essere gestito attraverso una cauta e sapiente azione diplomatica. Se non altro al fine di evitare la catastrofe economica che all’attualità, e ancor più di prima, attanaglia il Paese sfaldandone il tessuto sociale.

Intendiamoci allora su un punto, perché alla lunga di questo si tratta: il problema italiano in materia di politica estera si sostanzia verosimilmente nel voler gestire un “non senso” strategico-tattico che si sostanzia nella pretesa di poter sostenere, contemporaneamente, sia l’ideale della integrazione europea sia l’utopia stereotipata della persistenza di una alleanza atlantica che, a distanza di decenni dalla fine del conflitto da cui è scaturita, ha oramai smarrito i suoi contorni definitori, apparendo quasi come una immagine annacquata di qualcosa che è stato ma di cui non si è riusciti, e non si riesce tutt’ora, a far sopravvivere il fondamento stanti le diverse torsioni al fenomeno inflitte quando dai governi di centro-sinistra, quando dai governi di centro-destra che, nel medio e lungo termine hanno contribuito, colpevolmente, a ridurre il peso ed il ruolo dell’Italia sulla scena europea e mondiale.

I nostri governi, in buona sostanza, nel tentativo di ottenere un accreditamento sul piano internazionale che non sono mai riusciti a conseguire, si sono alternati tra scelte votate all’ideale della estensione governativa europea nel massimo potenziale conseguibile, e decisioni improntate alla minimalizzazione dell’ingerenza dei grandi potentati europei, compromettendo, di fatto, per confusione, anche il legame transatlantico.

L’Italia non è riuscita ad imprimere quella affidabilità che ci sarebbe potuti attendere perdendo l’occasione per giocare un ruolo attivo nello scenario globale di nuovissima formazione. Abbiamo voglia oggi di sostenere che l’Italia non avrebbe potuto essere il grande Paese che è se non avesse dato seguito al processo di integrazione europea, se poi, all’esame dei fatti, quella stessa integrazione si presenta e si rivela a “correnti alternate” per essere funzionale solo alle esigenze delle cancellerie di Germania e Francia che ne hanno da sempre dettato l’indirizzo politico ed economico e che, all’occorrenza, hanno saputo invertire la rotta dando preminenza al proprio interesse nazionale.

Il problema, dunque, non è Laurence Boone, nel suo ruolo di Ministro francese per gli Affari Europei, ma è la politica italiana, incapace di esprimere e di rappresentare efficacemente gli interessi del proprio Paese che a cagione di scelte di politica estera improntate, parrebbe, al servilismo atlantico, ha finito per compromettere le sorti economiche di una nazione lasciata in ginocchio dal biennio pandemico e che rischia, ora come ora, di arrivare al tracollo sociale. Vogliamo continuare sul solco tracciato o vogliamo finalmente imprimere una inversione di rotta che possa dirsi utile a salvare quel che resta di un Paese che fu fiorente e che rischia di retrocedere a condizioni di sottosviluppo?

Giuseppina Di Salvatore – Avvocato, Nuoro

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