Ennesimo “no” dell’Europa al Governo Meloni. Inoppugnabile diniego dell’Unione Europea al rinnovo automatico delle concessioni balneari: “Le concessioni di occupazione delle spiagge italiane non possono essere rinnovate automaticamente ma devono essere oggetto di una procedura di selezione imparziale e trasparente” e pertanto “i giudici nazionali e le autorità amministrative” italiane saranno “tenuti ad applicare le norme pertinenti" del diritto europeo, “disapplicando le disposizioni nazionali non conformi".  

E che significa tradotto in soldoni? È presto detto, con buona pace di quanti volessero aggirare i divieti comunitari. Tanto per cominciare, significa che con la sentenza della Corte di Giustizia relativa alla causa C-348/2022, è arrivato, come era lecito attendersi, il no dell'Europa al rinnovo automatico delle concessioni su demanio marittimo, già ampiamente ribadito anche di recente dal Consiglio di Stato, che ha escluso qualsiasi proroga automatica, compresa quella al 31 dicembre 2024 prevista dal D.L. n. 198/2022 (Decreto Milleproroghe), convertito con legge n. 14/2023. Quindi perché, diversamente da quanto aveva ritenuto di poter interpretare un Comune in riferimento a una controversia insorta sul piano amministrativo con l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), l’aver prorogato le concessioni balneari sul proprio territorio sulla base della legge n. 145/2018 (Legge di Bilancio 2019) avrebbe, come di fatto ha, “aggirato” il disposto della Direttiva 2006/123/CE, la c.d. “Direttiva Bolkenstein”, sia pure giustificando l’eseguito differimento con la necessità di disporre del tempo utile per svolgere tutte le attività essenziali per la riforma delle concessioni. Infine, perché, stando alle disposizioni del diritto dell’Unione, per l’assegnazione di concessioni di occupazione del demanio marittimo, gli Stati membri sono sempre e comunque tenuti ad applicare una procedura di selezione tra i candidati potenziali qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali.

Del resto il disposto dell’art. 12 della Direttiva parla chiaro: “Qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento” conseguendone che la relativa “autorizzazione è rilasciata per una durata limitata adeguata e non può prevedere la procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami”.

Si tratta di disposizioni produttive di effetti diretti, motivo per cui, inevitabilmente, i giudici nazionali e le autorità amministrative, comprese quelle comunali, sono tenuti ad applicarle, come pure altresì sono tenuti, e contestualmente, a disapplicare le norme di diritto nazionale non conformi alle stesse. Tanto più allorquando non sia emerso «alcun elemento idoneo a inficiare la validità della direttiva» europea, e, ancor di più, allorquando, nell’approvarla, nell’anno 2006, il Consiglio Ue, abbia «correttamente deliberato a maggioranza qualificata».

Ma allora che senso ha cercare di forzare la mano su questioni in merito alle quali il margine di autonomia del Governo Italiano è praticamente uguale a zero? Che senso ha insistere su circostanze giuridiche consolidate solo per cercare di conservare un gradimento sul piano elettorale, se poi la conseguenza rischi di apparire, come probabilmente appare, ancor e assai più deludente della realtà fattuale? Perché intraprendere iniziative che poi costringono a clamorosi passi indietro con ogni conseguenza in termini di immagine pubblica e credibilità? E poi, perché rischiare sempre la procedura di infrazione offrendo l’idea di una Italia refrattaria al decisum comunitario?

Dalla Commissione europea è già sopraggiunto un preciso e non altrimenti trascurabile avvertimento inoppugnabile  al governo italiano, sul quale oscilla la possibilità della attivazione della procedura di infrazione, alla quale, peraltro, conseguirebbe una condanna certa e non altrimenti evitabile ad una sonora multa milionaria che, paradossalmente, nella sua consistenza tutta, dovrà essere pagata da tutti i contribuenti a cagione, verosimilmente, della ostinazione e della inconcludenza della politica nazionale.

Giorgia Meloni, fortunatamente, nell’incontro tenutosi con il commissario Thierry Breton, ha voluto offrire rassicurazioni sul punto, sostenendo fermamente, e diremo pure necessariamente al fine di evitare ulteriori incomprensioni gravemente compromissorie dei buoni rapporti con le massime Istituzioni Europee,  che le autorità nazionali tutte, a qualsiasi livello in Italia applicheranno molto rapidamente la legislazione europea, e che le autorità nazionali procederanno ad allineare la legislazione nazionale italiana alle norme europee: quasi fosse necessario doverlo ulteriormente ribadire. Se si fosse agito fin da principio all’insegna del rispetto della normativa vigente, sicuramente l’incomprensione, a volerla così definire, non avrebbe avuto ragion d’essere. Ma tanto è accaduto. Inutile dire che, ad ogni buon conto, le Istituzioni Europee, giusto per non lasciare nulla al caso, si premureranno di effettuare un monitoraggio diretto e molto rigoroso della situazione: sorvegliati speciali insomma, a volerla così dire, senza possibilità di ulteriore appello e senza alcuna possibilità di replica. Rapidamente allora si impone, onde evitare danni ulteriori agli operatori del settore, una ricognizione sul reale stato della disponibilità di coste da destinare alle attività balneari, ammesso e non concesso che si riesca a offrire congrua e motivata giustificazione e motivazione con specifico riferimento alla non esiguità del bene e, quindi, in qualche modo, evitare l’obbligo delle gare pubbliche. E sempre ammesso e non concesso che si riesca ad aggirare, e davvero non potrà essere, l’obbligo ulteriore, e probabilmente più gravoso, contenuto nella sentenza della Corte di giustizia della Unione Europea: ossia quello del divieto di rinnovare automaticamente una qualsivoglia autorizzazione esistente, e pertanto, il divieto assoluto e non altrimenti evitabile, a qualsiasi genere o tipologia  di proroga in capo ad un certo titolare per il sol fatto della sua “persistenza” sul territorio e del servizio costantemente offerto alla utenza negli anni.

Conseguentemente, se la Corte di giustizia stabilisce, come di fatto ha stabilito, indistintamente, il divieto di proroga, ne consegue anche la necessità che, con riferimento alle concessioni scadute, queste debbano obbligatoriamente venire riassegnate tramite incanto pubblico, anche a prescindere o meno della esiguità del bene disponibile. Esiguità che, a ben considerare, si rinviene quasi a cosiddetta “macchia di leopardo”, siccome in talune località balneari oramai non pare esistere praticamente un pertugio di spiaggia pubblica liberamente accessibile da parte delle persone. Forse, oltre alla questione dell’assegnazione delle concessioni sarebbe meglio ridefinire una volta per tutte anche le norme relative all’affollamento degli stabilimenti balneari sul demanio pubblico, stabilendo un’adeguata percentuale di spazi utili liberamente accessibili e fruibili da parte delle persone.

In tutto questo marasma di legislazione, la vicenda annosa delle concessioni balneari è ancora assai lontana dall’essere risolta. Promesse elettorali difficilmente conseguibili, alla lunga, e alla prova del tempo, non paga. Ma questa è una lezione che la politica tutta stenta ad apprendere.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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