C 'è pur sempre un qualcosa d'amaro che ritorna nella vita degli uomini come nella storia delle genti, ed è poi questa la constatazione che ha accompagnato per oltre un secolo i rapporti di noi sardi con gli Usa. Infatti, come il convitato di pietra nell'opera di Moliére, anche nelle vicissitudini dei nostri prodotti caseari, c'è un'intrusione virtuale che incombe minacciosa, come responsabile occulto della cruenta “disamistade” fra allevatori e trasformatori sul prezzo del latte.

In questo caso, avrebbe le vesti del pecorino romano, quel formaggio che da circa 130 anni accompagna, nel bene e nel male, con la sua location americana, le sorti del pastoralismo e dell'intero settore lattiero-caseario dell'isola.

Un formaggio del tutto particolare che di romano ha solo il nome, derivante dai casari laziali che lo introdussero nell'isola cento e più anni or sono. D'altra parte rimarrà tutto sardo (o quasi), dalla materia prima alle mani dei produttori, per poi abbandonare frettolosamente l'isola per varcare l'Atlantico e raggiungere il desco dei milioni di “maccaronari” giunti a Broccolino dalle terre del Sud Italia, rimasti legati ai sapori della pummarola 'n coppa della loro terra d'origine. Grazie a loro, il “romano” entrerà in un mercato, per dare retta ai numeri, che sarà venti, cento volte maggiore di quello isolano.

Negli Usa verrà ritenuto un formaggio low-priced, niente più che un anonimo grating cheese, da grattugia, condimento piccante per il cibo dei soli “guineas” (come erano spregiatamente indicati i nostri emigrati). (...)

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