È trascorso oltre un anno dal primo lockdown e l'Italia, con centodiecimila morti per Covid-19, arranca ancora in preda ad una drammatica emergenza. La campagna di vaccinazione stenta a decollare, l'economia è in ginocchio, il malcontento popolare serpeggia, soprattutto tra le categorie più esposte alle raffiche della crisi.

Ma c'è un altro aspetto, eticamente non meno importante, che alimenta amarezza e fondate preoccupazioni: il progressivo smarrimento del sentimento di solidarietà, quel particolare afflato che nel corso della storia è sempre risultato fondamentale, in ogni nazione, per superare i momenti più duri. Nel marzo del 2020 l'Italia affrontò sgomenta l'impatto con un virus misterioso che arrivava dalla Cina. Generazioni di cittadini che non avevano conosciuto la guerra si ritrovarono improvvisamente a combattere contro un nemico infinitamente piccolo ma letale. Ci furono errori, fatali improvvisazioni ma in generale si avvertiva la voglia di affrontare tutti insieme una prova decisiva. Certo, quelle bandiere tricolori appese sui balconi e gli striscioni con le scritte “andrà tutto bene” contenevano un pizzico di retorica; eppure testimoniavano un sentimento comune, la consapevolezza di trovarsi sulla stessa barca.

Oggi, a dispetto del fatto che disponiamo di un'arma decisiva come il vaccino, l'atmosfera è quella della discordia generalizzata: tutti contro tutti, stressati, incattiviti, avvelenati da un morbo altrettanto pericoloso, quello della sfiducia.

G iorni fa sono scesi in piazza in varie città ristoratori e titolari di partite Iva, commercianti costretti a ricorrere agli strozzini, cittadini che la crisi sta mettendo al tappeto, penalizzati dalla perversa logica dei semafori, a malapena sostenuti da qualche briciola di “ristori”. Una protesta legittima, accorata, non inficiata dalla presenza di qualche agitatore infiltrato. Eppure è stata l'occasione per toccare con mano la totale mancanza di empatia, una sorta di desamistade che divide i cosiddetti garantiti (dipendenti pubblici, impiegati a reddito fisso, pensionati) dagli autonomi.

I primi, per lo più interessati ad ogni forma di chiusura che possa garantirgli la salute ad ogni costo (anche quello del fallimento altrui) considererebbero i secondi una pletora di evasori fiscali che ora pretendono il sussidio statale. E gli autonomi, a loro volta, penserebbero ai garantiti come dei fannulloni ruba-stipendio che passano la giornata spalmati sui divani a guardare le serie di Netflix. A leggere i social c'è soprattutto questo: il trionfo degli stereotipi, delle generalizzazioni più banali, nessuna voglia di capire le ragioni degli altri.

È una drammatica spaccatura che investe persino la campagna di vaccinazione. La scelta di non procedere indistintamente per fasce di età ma di proteggere anche alcune categorie, ha causato non solo il fenomeno dei “salta la lista” (giustamente stigmatizzato dal premier Draghi) ma anche un'avvilente guerra tra vaccinandi: gli esenti contro chi può iscriversi senza aspettare la chiamata dell'Ats, le persone in attesa del siero AstraZeneca invidiose di chi ha invece ricevuto i vaccini Pfizer o Moderna, i settantenni contro gli ultranovantenni che (si legge anche questo!) avrebbero vissuto già abbastanza. Siamo non solo all'assenza del senso civico ma ai limiti della ferocia.

È una dura primavera quella che stiamo vivendo. Nella Sardegna che vira verso la zona rossa tornano alla mente, come messaggio di verità che solo la poesia e la letteratura sanno a volte dare, i versi di Thomas Stearns Eliot: «Aprile è il più crudele di tutti i mesi, genera lillà dalla terra morta, mescola memoria e desiderio, desta radici sopite con pioggia di primavera». È l'incipit de «La terra desolata», un poema meraviglioso. La rivincita della natura non si accoppia purtroppo alla rinascita morale dell'uomo. Eppure per battere la pandemia servirebbe soprattutto la solidarietà che abbiamo un po' tutti smarrito.

MASSIMO CRIVELLI
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