P asso dopo passo, di decreto in decreto, ci avviciniamo rapidamente a ciò che da settimane appariva ormai inevitabile: un nuovo lockdown nazionale. Da quando a metà settembre la curva dei contagi ha iniziato a salire vertiginosamente è sembrato infatti chiaro che sarebbe stata l'unica soluzione per scongiurare il collasso delle strutture sanitarie. Il “semaforo” che regola l'emergenza ha preso a lampeggiare in rosso in molte, troppe regioni. E ora tutti i segnali portano a credere che nel week-end il governo dovrà decidere nuove restrizioni.

D allo stesso Partito repubblicano è stato inviato l'invito amichevole dell'ex presidente George W. Bush: «Voglio congratularmi con il presidente Trump e i suoi supporter per la combattiva campagna elettorale. Ha ottenuto 70 milioni di voti dagli americani, uno straordinario risultato politico... Il presidente ha il diritto di chiedere il riconteggio e presentare i ricorsi. Ogni questione sarà giudicata in modo adeguato. Il popolo americano deve avere fiducia: le elezioni sono state fondamentalmente corrette e il risultato è chiaro». Come dire: onore al merito, ma riconosci la sconfitta.

L'impressione generale anche tra i Repubblicani che contano sembra perciò essere quella di riconoscere il risultato elettorale. Tutt'al più potrà esserci ancora qualche schermaglia nel ricomputo dei voti, oltre 70 milioni, più di quelli presi quattro anni fa quando Trump era stato eletto presidente: il che testimonia il mantenimento del suo elettorato, che era e rimane tuttavia minoritario. Sembrerebbe dunque che gli Stati Uniti stiano davvero voltando pagina, ma ciò non significa che si apprestino a ribaltare anche le politiche, soprattutto quella estera. Sicuramente questa non muterà nei confronti della Cina, verso la quale, nonostante le sfide di Trump, il deficit commerciale rimane pressoché invariato a 345 miliardi di dollari.

È da questa condizione che deriva la scelta di fondo degli Stati Uniti di considerare la Cina come il grande avversario economico e strategico del ventunesimo secolo e di trattarla come tale, chiunque sia il presidente. Biden, dal canto suo, ha già definito la Cina “un concorrente” e la Russia “una minaccia”. Perciò, i dazi commerciali verso la Repubblica popolare sono destinati a rimanere anche con Biden e l'attenzione di Washington continuerà a essere puntata sull'Asia. Di riflesso, si avranno implicazioni sull'Europa e sull'Italia in particolare. Ciò non significa, come scrive Federico Fubini sul Corriere della Sera, «che verrà meno la pressione americana sugli alleati perché riducano al minimo le commesse alle grandi imprese tecnologiche cinesi, anche nelle telecomunicazioni di ultima generazione come il 5G». Anzi, c'è da aspettarsi che anche la nuova amministrazione di Biden continuerà a mettere sotto pressione l'Europa, in special modo la Germania e l'Italia, perché aumentino i bilanci della difesa.

Poi c'è il discorso della tassazione sul reddito delle grandi multinazionali High Tech americane che operano in Europa, su cui sarebbe opportuno trovare un accordo prima di imbarcarsi in una nuova guerra commerciale tra le due sponde dell'Atlantico. Infine, c'è il discorso dei sussidi alle società produttrici mondiali di aeroplani, l'europea Airbus e l'americana Boeing, col problema connesso dei dazi “compensativi” che colpiscono già una lunga lista di prodotti alimentari del made in Italy.

Perciò, è probabile che sui principali punti di frizione commerciale fra Europa e Stati Uniti, la Casa Bianca riprenda il confronto multilaterale nell'Organizzazione mondiale del commercio, che Trump aveva paralizzato. Perché, come scrive Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, «la ricucitura dei legami interatlantici serve alla proiezione internazionale degli Stati Uniti, alla sicurezza dell'Europa e anche alla buona salute della società liberale occidentale. Ma non basta. Servirebbe anche uno sforzo dell'Europa che però non pare disporre delle necessarie risorse morali e psicologiche».

BENIAMINO MORO
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