N essuna famiglia con un po' di senno si indebita e se ne vanta. Non a caso il debito privato in Italia è basso, tra i meno elevati delle economie avanzate, siamo un popolo prudente. Ma solo in casa. Perché quando si tratta del denaro pubblico (che come insegnava Margaret Thatcher non esiste, è il denaro del contribuente) gli italiani pensano che il debito non sia di nessuno. Avviso ai naviganti, quel debito è nostro.

Quando Mario Draghi esortò - con estremo e puntuale senso dell'urgenza - con un editoriale sul “Financial Times” i governi a abbandonare il rigore contabile per assorbire nei bilanci pubblici la crisi delle aziende e delle famiglie, non invitava alla spesa in allegria, ma a una scelta ponderata dei settori da salvare, una politica d'emergenza per il presente e investimenti per il futuro. In Italia questo cambio di paradigma si è tradotto in uno stato d'emergenza permanente e zero investimenti, viviamo in un immanente “adesso” senza pensare che esiste il “domani”, soprattutto quello dei nostri figli, persone alle quali stiamo lasciando una pesantissima eredità. Andiamo con ordine, partiamo dallo stato d'emergenza.

La dimensione dello stato d'eccezione ha mutato radicalmente il rapporto tra le istituzioni, introdotto un premierato che non esiste nella Costituzione italiana, spostato la legislazione dal Parlamento al governo, lasciato all'esecutivo decisioni gravi che dovevano essere vagliate in maniera approfondita e ponderata dalle Camere.

I l caso della mancata istituzione della zona rossa ad Alzano e Nembro e del successivo lockdown dell'intera nazione è esemplare. Atti tenuti segreti, pubblicati in maniera tardiva e solo in parte, grazie alla pressione dell'opinione pubblica, di pochi intellettuali e di istituzioni (la Fondazione Einaudi) sensibili al tema della democrazia. Oggi sappiamo che il Comitato tecnico scientifico sosteneva chiusure mirate, il premier Conte ne ha ordinato invece una generale di tutta la nazione, alla cinese.

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, sono state valutate e illustrate agli italiani? No. Il Mezzogiorno e le isole hanno subito un trattamento uguale alla Lombardia e al Veneto, l'impatto sulla stagione turistica della Sardegna, industria per noi vitale, parla da solo. Siamo ancora oggi fermi a una logica puramente difensiva e non attiva sul contrasto al virus (sul quale c'è ampia, varia, qualificata e libera letteratura scientifica), ma nessuno ha pensato durante il lockdown al taglio dell'aspettativa di vita di milioni di malati, affetti da altre patologie (la cura dei tumori e del cuore, per esempio) e alla cascata del “dopo”, quando è arrivato il collasso dell'economia e il colpo d'ariete sui ceti produttivi meno protetti dalla crisi. Tutto perdonato, tutto dimenticato. Gli italiani non hanno memoria, finché quello che pochi dicevano e scrivevano non si materializza.

Veniamo al secondo quadro, quello dell'economia. Il governo giallo-rosso ha accumulato in pochi mesi 100 miliardi di debito pubblico, una galoppata verso il vuoto accompagnata da una soddisfazione incontenibile per l'impresa appena compiuta. Altro avviso ai naviganti, non c'è niente da ridere. Il debito a fine anno (le stime sono di Mazziero Research, sempre puntuale sul tema) sarà sempre più vicino a 2600 miliardi di euro (tra i 2.547 e 2.577 miliardi), il rapporto tra debito e prodotto interno lordo sarà al 161%, quello tra deficit e Pil sarà al 10,8%. Dulcis in fundo, la stima finale del Pil per il 2020: - 8%. Questo è il cruscotto dell'automobile che abbiamo davanti: ci hanno prestato un paio di latte di benzina, abbiamo le ruote semi sgonfie, i dischi dei freni sono consumati, si sente uno strano cigolio provenire dal motore, tutti a bordo sono su di giri e cantano “funiculì, funiculà”. Il governo gira a bordo di un'utilitaria che ha bisogno di una revisione, ma dice a tutti che è una Ferrari. C'è chi ci crede, questo è il lato tragicomico della storia. Il governo ha varato il decreto Agosto, altri 25 miliardi che portano la cifra (semi) finale delle misure a 100 miliardi, tutti in deficit. Come i due precedenti decreti (Cura Italia e Rilancio), siamo di fronte a misure polverizzate, un fiume di denaro che se ne va in mille rivoli e nella spesa per la cassa integrazione, manca quella che in politica si chiama visione.

Dove stiamo andando? Non si sa. Emergenza senza investimenti significa solo rinviare l'arrivo del treno della realtà, bloccare artificialmente i licenziamenti senza avere un'idea di come creare posti di lavoro significa non aver capito che cosa sta accadendo: questa crisi va dritta come un treno verso una ristrutturazione pesante di alcuni settori, è successo con il crollo finanziario e la recessione del 2008, accadrà in maniera ancora più profonda nel 2020 e gli anni a venire, niente tornerà come prima. Bisogna pensare a un nuovo inizio. E se inizi con una montagna di debito, poi arriva il conto da pagare. Siamo un Paese con la mascherina, va bene, è cosa sana e giusta. Ma non si può mascherare a lungo anche la verità.

MARIO SECHI

DIRETTORE DELL'AGI

E FONDATORE DI LIST
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