M ancano 13 giorni. Dopo gli assalti ai supermercati, dopo la corsa alle terapie intensive, l'annuncio di sciopero delle pompe funebri a Bergamo, dopo il traffico delle bombole di ossigeno, le bare riciclate (perché non bastano più), le mascherine bloccate alle frontiere, dopo il finanziamento straordinario ai Comuni per distribuire generi di prima necessità, c'è una scadenza ancora più importante che ci attende.

S egnate il conto alla rovescia di questi prossimi tredici densissimi giorni. Sono quelli che decideranno il destino dell'Europa, oltre la sua mera identità geografica, che disegneranno del suo ruolo storico, politico culturale ed economicamente rilevante come soggetto autonomo nella storia di questo secolo.

Dodici giorni sul calendario, dunque: questo infatti è il tempo che ci separa dalla nuova riunione dei capi di governo dell'Unione Europea, quella che sarà decisiva per capire come fronteggiare uno dei due temibili nemici che abbiamo di fronte - insieme e contemporaneamente - mentre ci stringono in un attacco concentrico: da un lato il Covid-19, e dall'altro lo spettro di una devastante crisi economica.

Del primo nemico abbiamo detto e scritto moltissimo fino ad oggi. Del secondo ancora troppo poco, perché la partita si sta giocando non solo sulla scena, ma anche dietro le quinte delle cancellerie. Da un lato ci sono la Germania e i suoi alleati del Nord Europa. Dall'altro c'è un fronte di paesi del Sud Europa (ma non solo più quelli, ormai), incardinato sull'alleanza tra Francia, Spagna e Italia. Sul piatto c'è la posta che decide se i Paesi più colpiti potranno risollevarsi: un piano di risorse e finanziamenti, i cosiddetti (fino a ieri) Eurobond. E poi ci sono due ricette: una è quella indicata, in queste difficilissima settimana dall'ex governatore della Bce. Immettere risorse economiche nelle nostre economie malate - ancora una volta un “whatever it takes” - per sostenerle nel momento più difficile. L'altra invece è quella di Angela Merkel e dei suoi alleati: nessun Eurobond, nessun accesso al fondo salva-stati, il Mes, «senza condizionalità». Che poi è uno splendido eufemismo per dire ai Paesi più malati e più indebitati (a partire da noi che siamo entrambe le cose): se volete risorse per risollevarci dovete accettare vincoli europei sulla vostra spesa e sui vostri bilanci. Un fantasma che dai tempi della crisi greca prende il nome di trojka (ovvero una drammatica cessione di sovranità). Ma Draghi sostiene che in condizioni tanto drammatiche i parametri con cui è stato governato il vecchio continente vanno rivisti: «Livelli molto più alti di debito pubblico - è questo che suona come eresia agli occhi dei rigoristi nelle sue parole - diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato».

Ieri la presidente dell'Unione Ursula van Der Leyen ha sentito il richiamo della foresta e ha fatto un passo verso il fronte tedesco: «Il termine coronabond è attualmente uno slogan. Dietro ad essa c'è la questione più grande delle garanzie. E qui le riserve in Germania, ma anche in altri Paesi, sono giustificate». Gualtieri è stato sorprendentemente netto: «Sono parole sbagliate». E sempre ieri i tre paesi baltici, la Slovacchia e Cipro hanno informalmente annunciato di firmare la lettera di intenti italo-franco-spagnola con cui si chiedono i bond. Questo gesto ieri ha portato il conto del pallottoliere nell'Unione a questa cifra: 14 a 4. Il che non risolve. Perché il problema non sono certo Olanda, Finlandia e Austria, ma il tema che nessun accordo può essere costruito, sopratutto nel castello incantato dell'Unione, contro la Germania.

Dopo di ieri è sicuro che questi finanziamenti non si chiameranno “Coronabond”. Ma - come direbbe Umberto Eco - ció che conta in questa partita non è il nome, ma la cosa: i nomi sono conseguenza delle cose. Se nell'eurogruppo vincerà il buonsenso, infatti, si potranno chiamare in un solo modo: Draghibond.

LUCA TELESE
© Riproduzione riservata