Q uattro mesi fa, quando mi trovai ad intervistare Giuseppe Conte a Palazzo Chigi gli chiesi se riuscisse a dormire sonni tranquilli malgrado lo spread. Il premier dapprima mi sorrise cortese, poi fece una pausa un po' teatrale. E quindi mi rispose con questa frase: «Non voglio averlo piantato nel cervello. Ma lo tengo sempre a fuoco, in un angolo del mio campo visivo, perché è un numero che non posso permettermi di ignorare mai».

Fece un gesto con la mano, come per collocarlo nell'angolo di un immaginario schermo. E sono convinto che lì sia rimasto, metaforicamente, fino a due giorni fa. Fino a quando, cioè, nel governo è deflagrato il conflitto tra Giovanni Tria che vuole partire dallo spread per tenerne conto, Matteo Salvini che vuole prescindere dalla sua minaccia, e Conte, che dice di non poterlo ignorare. Non è un caso che mentre Tria tranquillizzava l'Europa ripetendo che «i titoli italiani sono un ottimo affare per gli investitori», il ministro dell'Interno tenesse il punto: «Lo spread è un'arma che stanno usando per ricattarci ed intimidirci».

Ecco perché solo quando in serata il differenziale con il titolo di stato tedesco è tornato sotto la soglia di guardia (cioè sotto quota 280, fino a toccare quota 278) a palazzo Chigi si è tirato un sospiro di sollievo.

Così la domanda di oggi, ancora una volta è: siamo giunti ai titoli di coda per il film del governo? La risposta è no: cosa sarà di questa maggioranza, nel bene o nel male, lo decideranno solo gli elettori nelle urne delle elezioni europee. (...)

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