D ice Matteo Salvini, dalla Versilia, con una prudenza che quasi stupisce: «Andrò in Aula ad ascoltare il mio presidente del Consiglio, a capire che idea dell'Italia ha, poi deciderò da persona libera». Quasi una coccola, nell'ora più delicata. Sono svaniti i toni di guerra, sembra che la mozione di sfiducia non sia stata mai presentata. Ed è per questo che oggi, comunque vadano le cose, è curioso che il pallino della crisi lo ha in mano lui. Ovvero Giuseppe Conte avvocato, da Volturara Appula, Puglia: sottovalutato da tutti, quando divenne premier, talvolta persino irriso, e poi saltato fuori dal gruppone di testa dei maratoneti di governo gialloverde, come certi fondisti africani che, dopo essere partiti ultimi, alla fine arrivavano primi al traguardo.

Nota curiosa. Dovevano cucinarlo alla brace, dimissionarlo con un calcio nel sedere, invece è lui che ha in mano il destino del “governo del cambiamento”, solo lui che può decidere se alla fine si intonerà un “Ricominciamo”, alla Adriano Pappalardo (copyright, Marco Minniti) o se staccherà la spina, “This Is the End” (come cantavano i Doors che ascoltava da ragazzo). Chiudere la storia del governo andando al Colle come per un pokerista giocare tutta la posta nel piatto, lasciare per ottenere un reincarico. Meravigliosa sliding door, un passaggio intrigante per chi ama le porte girevoli che fanno volare le carriere.

Non tutti sanno che Conte fu reclutato nel mondo pentastellato, con un gioco di ribaltamento, dal suo ex assistente (occasionale) a Giurisprudenza a Firenze, un - allora - giovanissimo Alfonso Bonafede. (...)

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