I l secondo possibile suicidio politico di Matteo Renzi ha avuto un merito che molti arguti osservatori, dal buco della loro serratura, non vedono o non vogliono vedere. L'ex sindaco di Firenze, che all'inizio del 2014 folgorò l'Italia sulla via del Quirinale (c'era Giorgio Napolitano) dopo aver defenestrato Enrico Letta, ha bloccato sul nascere il tentativo di Giuseppe Conte di mettere in piedi una nuova corte dei miracoli fatta di supermanager (stile Vittorio Colao) per spendere e spandere i soldi del Recovery Fund. Circondato anche da scappati di casa, il presidente del Consiglio si è sempre considerato una spanna sopra, al punto da voler commissariare la politica.

In attesa di capire come finirà domani alla Camera e soprattutto martedì al Senato, va ricordato quanto sia stato bravo, il nostro premier, a passare all'incasso a Bruxelles. Presentandoci come i più sfigati in Europa, ha avuto un terzo delle risorse Ue per lasciarci alle spalle le macerie economiche del virus, riuscendo persino a spuntarla sul premier olandese Rutte, che (corsi e ricorsi della storia) si è dimesso l'altro giorno per una figuraccia figlia della contabilità maniacale.

Il resto è cronaca di Palazzo, con una prima bozza sul Recovery che destinava alle pari opportunità più del doppio dei fondi rispetto alla salute, nonostante i Cinque Stelle non volessero (e non vogliano) il Mes. Ma per favore, come è stato possibile anche solo pensarlo? È successo giusto poche settimane fa, in piena seconda ondata.

C 'è da chiedersi dove fossero il segretario Pd Zingaretti e il ministro dell'Economia Gualtieri quando Conte e i suoi esperti si spartivano una torta da 209 miliardi. Eppure i Dem avevano già assistito (da invitati, anche in quell'occasione) all'improbabile passerella degli Stati Generali a Villa Pamphili. Ma Renzi no, non ce la può fare. E così ha dilapidato la doppietta messa a segno nella partita di Giuseppe Conte - sino a quel momento senza avversari - del Recovery. Il refrain del rottamatore mancato è sempre lo stesso: o con me o contro. Proprio come per il Referendum del 2016. E non è bastata nemmeno l'esperienza dell'altro Matteo, cucinato da Conte in Aula sullo sfondo del Papeete grazie al soccorso rosso (rossastro, dai).

I bookmakers de noantri scommettono su un Conte ter. Arriverà il contributo dei costruttori, come vorrebbe chiamarli anche il presidente della Repubblica. Ma i sinonimi abbondano: voltagabbana, trasformisti, stampelle, come sono stati sempre chiamati dal 1946 e, in tempi recenti, anche peones, scilipoti's, fritto Misto, senza che nessuno si offenda. Ma visto il periodo e il voto temuto in piena pandemia, c'è anche una versione più nobile: responsabili. Quasi dei salvatori della patria. Scegliete voi. Già, il voto. Ricordate quello del 4 marzo 2018? Non vinse nessuno. O meglio, il Pd del premier uscente Gentiloni uscì ridimensionato (sotto il 20%). Renzi, eletto senatore, si dimise da segretario del partito. Il boom del movimento di Grillo si fermò al 32%. E tutto il centrodestra - con la Lega davanti - finì comunque tre punti sotto il 40%. L'ingovernabilità certificata dal professor Cottarelli al presidente Mattarella venne smentita due volte da Conte, promosso dall'insostenibile accordo tra Grillo e Salvini prima e tra Grillo e Zingaretti poi.

Oggi l'avvocato del popolo, tra un nuovo post di Rocco Casalino e una passeggiata sotto i riflettori per una pausa caffè, ha forse trovato i numeri per succedere per la terza volta a se stesso. Sarà cosa buona e giusta? La pandemia finisce per essere il coperchio per quasi tutto e in quasi tutto il mondo. Certo, il pastrocchio italiano è difficile da giustificare con chi, in Europa, ci ha dato una straordinaria apertura di credito con il Recovery Fund. Più o meno la metà dei 209 miliardi andrà restituita, ma intanto salviamoci dal virus (i 32 milioni del Mes sarebbero stati spendibili da giugno, peccato) e facciamo ripartire l'economia appena possibile, magari con idee più chiare di quelle che gli strateghi hanno espresso sinora. Con capitoli di spesa che sanno tanto di slogan, tipo rivoluzione verde, transizione ecologica, turismo e cultura 4.0. Un "Piano nazionale di ripresa e resilienza" (e basta con questa resilienza) di 169 pagine, ancora molta fuffa e poca sostanza. Inutile dire che non si parla più di riforma (vera) della burocrazia. Superfluo aggiungere che la Sardegna potrebbe rimanere ai margini. Si sa già, per esempio, che una miliardata di euro sarà trovata per la riconversione energetica dell'Ilva di Taranto. Nemmeno un ciao per le nostre centrali che, dal primo gennaio 2026, non potranno più andare a carbone. Metano? Idrogeno? Gassosa?

Aspettiamo che anche i nostri venticinque parlamentari, ognuno nella sua squadra, facciano il loro gioco per dare un futuro parlamentare al Governo. Il voto no, sarebbe una sciagura. Il Covid, l'Europa, lo spread. E poi, con nuove elezioni, lasceremo a casa 345 parlamentari. Chi volete che si muova da lì.

EMANUELE DESSÌ
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