L 'affacciarsi del coronavirus in Italia, con numerosi casi registrati in tre centri del Lodigiano, dovrebbe indurre a una riflessione che rifugga dai facili slogan e dalle rassicurazioni di maniera, e affronti invece un problema di organizzazione come mai vissuto prima.

Non è con gli allarmismi mediatici né per converso con un ideologico fatalismo che si può arginare quella che sembra ormai una subdola pandemia, bensì con un vero e proprio sistema sanitario di emergenza, nel senso più ampio del termine. Non sono un medico, sia chiaro, ma la vicenda che si sta delineando, conseguenza delle caratteristiche del virus, conduce a un'elevata esigenza di risorse, professionali e ben guidate, sia nella fase di barriera preliminare, sia di verifica, poi di terapia e di contenimento. E sembra richiedere alberi decisionali analizzati a priori e in un certo senso precostituiti, pronti all'uso. Siamo infatti di fronte a una situazione di alto livello di complessità, per la quale non sono ammesse risposte volontaristiche, magari eroiche e preziose ma improvvisate (vedasi le reazioni ai ricorrenti terremoti). È un virus che si trasmette per via aerea ma anche per contatto; ha una resistenza elevata di permanenza sulle superfici; ha un periodo d'incubazione lungo, non ancora precisamente definito; porta un attacco che, da ignorante di medicina, indico come quello di una polmonite virale per la quale noi non abbiamo le difese né, al momento, un vaccino. Il fatto che il tasso di mortalità sia ancora basso (ma i virus hanno spesso la capacità di mutare nel tempo) niente sposta sul terreno organizzativo.

A nche un solo malato oppure un semplice caso sospetto richiede una squadra di addetti, di infermieri e medici, strutture adeguate, mezzi di trasporto, terapie particolari. Abbiamo apprezzato lo sforzo che è stato necessario per riportare in patria da Wuhan anche l'ultimo italiano; sono ancora in prognosi riservata i due cittadini cinesi ricoverati all'Istituto Spallanzani di Roma; assistiamo all'odissea dei passeggeri della nave da crociera Diamond Princess, pur ancorata davanti alle coste dell'organizzatissimo Giappone. E ora i casi accertati nel Lodigiano e in Veneto, le misure di isolamento in 9 Comuni. Moltiplichiamo anche solo per cento quello che accade oggi nei nostri confini, e rendiamoci conto di quanto il nostro vivere quotidiano non sia preparato a reagire efficacemente seguendo protocolli già testati.

Nel caso di un focolaio esteso, che cosa fare a livello nazionale? E che cosa fare a livello regionale, o di comune, di quartiere? La verità è che i piani di emergenza per la popolazione praticamente non esistono per eventi quali epidemie o pandemie (i sindaci e i prefetti mi smentiscano), e che lo stesso Codice della Protezione Civile, approvato con il decreto legislativo 224, non li tratta esplicitamente. Leggo peraltro: «Nell'ambito della protezione civile il rischio sanitario è sempre conseguente ad altri rischi o calamità, tanto da esser definito come un rischio di secondo grado. Emerge ogni volta che si creano situazioni critiche che possono incidere sulla salute umana. Difficilmente prevedibile, può essere mitigato se preceduto, durante il periodo ordinario, da una fase di preparazione e di pianificazione della risposta dei soccorsi sanitari in emergenza. In questo contesto viene contemplato il rischio epidemico laddove la gestione emergenziali dei preposti servizi sanitari richieda il supporto della protezione civile».

Mi chiedo: i piani comunali di protezione civile considerano queste eventualità? Il sindaco del paese colpito da un'epidemia come Codogno sarà pronto ad assumersi la responsabilità dell'adozione di provvedimenti contingibili e urgenti, dello svolgimento dell'attività d'informazione alla popolazione; del coordinamento delle attività di assistenza alla popolazione colpita?

Nel 2003, a Singapore, durante l'epidemia della Sars, il maggiore conforto derivava dalle chiare informazioni che il governo trasmetteva utilizzando la Tv: andare o non andare a scuola, in ufficio, al supermercato; strade o quartieri da evitare; mezzi pubblici disponibili; disposizioni sanitarie; ecc. M'immagino una nostra qualsiasi cittadina e mi vengono i brividi. Non sarebbe il caso di approfittare del coronavirus per organizzarci almeno nelle procedure di base, la comunicazione, ad esempio? La globalizzazione spalanca le porte e non perdona, come ci siamo accorti. Attenzione.

CIRIACO OFFEDDU

MANAGER E SCRITTORE
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