T ra i tanti, un inquietante aspetto della crisi sarda è il trionfo - per l'esaurirsi di alternative più degne - di quelli che gli americani chiamano “bullshit jobs”, chiedo venia per la crudezza, cioè dei lavori se non fondamentalmente superflui, almeno sostituibili con tecnologie ormai banali, e comunque di nessuno stimolo per chi li svolge.

Non voglio generalizzare, ma guardandomi intorno (beh, forse il campione rappresentato da Nuoro non può essere considerato scientifico, ma è quanto tocco ogni giorno con mano), quelli rimasti sono lavori ridotti a compiti routinari, ormai tanto digeriti da chi li svolge da diventare un bieco passatempo o un tormento, dipende dalle singole sensibilità e aspettative.

I migliori, i più responsabili e consapevoli, si accorgono di subire una forma di violenza psicologica: il loro lavoro di barra-caselle (non c'è bisogno di spiegare il nome) o di supervisori (che guardano gli altri lavorare) non dovrebbe più esistere in un'organizzazione moderna, e inevitabilmente li dequalifica. I più fragili si deprimono e, non a caso, Nuoro sta diventando una città in cui il consumo di antidepressivi supera ormai quello del cannonau - quando pure con quest'ultimo non si ricerchi lo stesso effetto. Ci sono, è pur vero, persone che sono in fondo contente di poter aver tempo e testa per l'accompagnamento dei figli (in nessun altro paese al mondo i figli sono tanto “accompagnati” quanto da noi), per gli hobby e i funerali, compiti sociali e istituzionali che invero assorbono molte energie. (...)

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