Colpiscono i dati sconfortanti della situazione economica e occupazionale in Sardegna. Al 222° posto, col punteggio minimo (-1) per competitività in Europa; Pil in calo; 54 mila posti di lavoro persi nel secondo trimestre 2013, col 18,6% di tasso di disoccupazione, 47% tra i giovani

Intanto si sta per avviare il consueto dibattito pre-elettorale, fatto di accuse, slogan. Tra i temi dibattuti: la zona franca. Anch'esso tema per tutte le stagioni, che non ha mai portato a nulla.

Questa volta però, i movimenti, la società civile hanno rilanciato con forza il tema, incalzando la Giunta regionale con class action e altre iniziative giudiziarie. Sostengono alcuni dati ovvi, almeno per chi se ne voglia avvedere.

Primo. La base giuridica per una zona franca doganale in Sardegna c'è già. La prevedono varie leggi regionali e il D.lgs 75 del 1998, frutto, tra l'altro, di una sofisticata architettura giuridica, dando esso applicazione, dopo 50 anni, all'art.12 dello Statuto sardo, norma costituzionale. Quella legge risale al Governo Prodi, concepita d'intesa con la Giunta Palomba.

Secondo. Le zone franche, nel mondo, sono oltre tremila, alcune centinaia nei soli Usa; vi lavorano più persone che in tutta l'Italia. Per questo sono apprezzate dall'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) e un'agenzia creata dall'Onu: Wepza (www.wepza.org), le studia dagli anni settanta. È tutto documentato: i flussi commerciali, le ricadute economiche, il dato occupazionale: almeno 150 occupati per ettaro. Questa, del resto, non è una novità: i Romani, quando vollero punire chi non aveva combattuto Perseo, istituirono il porto franco di Delo che, attraendo tutto il traffico commerciale, mandò in rovina Rodi.

Terzo. Il flusso dei traffici commerciali sta cambiando e stiamo perdendo competitività. I grandi porti del northern range ci stanno surclassando. Ogni anno circa 1 milione di contenitori di merce destinata all'Italia vengono sdoganati in nord Europa e poi trasportati da noi. Il nostro sistema portuale è dispersivo, va modernizzato, sburocratizzato e occorre aggregare l'offerta. Per questo, una zona franca integrale, con opportuni collegamenti e sinergie tra i porti dell'Isola, sarebbe forse meglio che singoli punti franchi, con ulteriori rischi di dispersione.

Quarto. Le politiche industriali in Sardegna vanno riprogettate, con opportuni investimenti (solo) nei settori competitivi. Non c'è più tempo da perdere. La zona franca può essere - non la panacea - ma uno strumento di corredo a nuove politiche industriali di lavorazione e trasformazione di vari prodotti, con ampi benefici per l'economia sarda.

Le ragioni per promuovere la zona franca ci sono, dunque, eccome. Ma l'iter normativo sinora seguito è schizofrenico, con lunghissime attese ed improvvise fughe in avanti, come avvenuto col Dpcm del 2001 (e la abortita Cagliari free zone srl). Da ultimo, la legge regionale 20/2013 opportunamente contempla la costituzione di una free zone non più cagliaritana ma sarda. Ma non tutti i Comuni dell'Isola hanno deliberato di aderirvi e la legge non dice su quali criteri si baserà la proposta da fare al Governo. Se solo alcuni dei Comuni sardi aderiranno, avremo una zona franca a macchia di leopardo, probabilmente irrealizzabile o troppo onerosa: chi pagherà i costi di implementazione?

D'altra parte, continuano le schermaglie politiche tra chi è d'accordo e chi no. Così il Pd, che ha la paternità dello strumento, a tratti sembra dimenticarsene. Il Pdl, che non lo ha mai curato, se ne scopre - solo ora - sostenitore convinto.

La vicenda mi ricorda un vecchio studio sulla connotazione ideologica della guida a destra in Inghilterra. Il volante all'inglese era di destra o di sinistra? Ecco, per il bene della Sardegna, c'è da sperare che un simile scenario non si verifichi, in campagna elettorale, sulla zona franca. Teniamo questo argomento fuori dal gioco delle parti e che ognuno si prenda le sue responsabilità.

*Università di Cagliari
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