S ono ancora lì, nel silenzio assordante della politica, le diciannove assoluzioni di Antonio Bassolino (già Sindaco di Napoli e Presidente della Regione Campania) dopo altrettanti processi durati ventisette anni. Speravamo in un “ravvedimento operoso” invece nulla, solo imbarazzo. Come quando, all'inizio del calvario, l'allora segretario del suo stesso partito non volle farlo salire sul palco di Piazza Plebiscito, durante un comizio.

In tutto questo tempo l'imputato Bassolino è come evaporato, per fare posto al suo surrogato giudiziario: l'imbarazzo. E sorte analoga è accaduta a tanti altri imputati, anch'essi costretti, per anni, a rendersi invisibili. Anche a Sassari, il Tribunale, su richiesta della Procura, ha appena assolto 15 imputati da accuse varie nella nota vicenda dei malati psichiatrici. Ci sono voluti dieci anni. Nel frattempo, 15 vite congelate, nell'imbarazzo.

Ogni volta il rito si ripete: l'inchiesta, le misure cautelari, la gogna mediatica e l'imbarazzato oblio (cioè la morte civile) dell'imputato sino a quando, molti anni dopo, arriva la sentenza definitiva (che spesso non è conforme a quelle che la precedono).

Si consuma così l'assurda parabola della durata ragionevole del processo, la quale, sui media, è irragionevolmente breve, nelle aule di giustizia è irragionevolmente lunga. Il processo si sviluppa quindi in un paradigma rovesciato ove la pena (mediatica e spesso cautelare) è certa mentre incerta è la colpevolezza, anzi, è presunta l'innocenza.

N el frattempo, l'esistenza dell'imputato viene messa in un congelatore e ridotta alle minime funzioni vitali. Dinanzi a questo disastro umano, sociale ed economico la politica che fa? Si “imbarazza”. Anzi, rincara la dose. Per colpire l'avversario (o rifarsi una verginità), pretende di estromettere da ogni incarico il condannato mediatico di turno. E argomenta: una cosa è il diritto, altra è “l'inopportunità politica” di mantenere in carica l'accusato.

Eppure pensavamo che ottocento anni di storia fossero bastati a comprendere la presunzione di non colpevolezza. Da quando l'articolo 39 della Magna Carta aveva assicurato che: «Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, privato dei suoi diritti o dei suoi possedimenti, messo fuori legge, esiliato o altrimenti rimosso dalla sua posizione.. se non per giudizio legale dei suoi pari». Credevamo che Pietro Verri e Cesare Beccaria avessero lasciato il segno e che anche l'articolo 9 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1789 non fosse stato scritto invano.

Pensavamo che la Dichiarazione dei diritti umani del 1948 (articolo 11), la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (articolo 6) e la Carta di Nizza (articolo 48) avessero, nel tempo, chiarito il concetto. Sembrava anche comprensibile a tutti l'articolo 27, comma 2, della nostra Costituzione: “l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”.

Ma forse sovrastimavamo la politica di oggi. Ed anche taluni custodi dell'ortodossia giustizialista che si chiedono: «Il mio vicino, quello cui affido mia figlia per accompagnarla a scuola, viene accusato di essere un pedofilo. Finché non si pronuncia la Cassazione è innocente. Ma io continuo ad affidargli mia figlia? ». Stravagante interpretazione, questa, che vorrebbe anticipare all'accusa gli effetti della condanna definitiva. Ma allora a che serve il processo? E il diritto di difesa?

La verità è che la Costituzione è fin troppo chiara: da qualunque vicenda giudiziaria non definitiva può desumersi solo la non colpevolezza dell'accusato. Non c'è opportunità politica che tenga. E chi la sostiene, oltre ad essere illiberale, è fuori dalla Costituzione, quindi dalla legalità.

Badino bene i sovranisti del rigore, i populisti delle manette e i sanculotti della purezza. Come diceva Pietro Nenni: «A fare a gara fra puri si trova sempre uno più puro. E quello ti epura».

ALDO BERLINGUER

UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
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