P olitica e sanità, è noto, sono sempre andate a braccetto. Ancor più da quando la sanità è diventata appannaggio delle Regioni che hanno beneficiato di enormi stanziamenti per organizzare le cure dei cittadini.

Si è quindi registrato, in questo settore, un reale esercizio di federalismo, avvicinando (sino quasi ad incontrarsi) i decisori agli utenti i quali, specie nelle regioni piccole, si conoscono per nome. Il tutto non si è però tramutato in una virtuosa assunzione di responsabilità. Si è invece alimentato, sino a tracimare, il fiume del clientelismo che, si sa, è un fiume carsico. Il terreno ove scorre diventa un colabrodo.

L'antico scambio: voti per posti di lavoro, ha quindi potuto declinarsi appieno. Le occupazioni elettorali sono aumentate a dismisura. Hanno fatto prevalere i ruoli amministrativi sul personale sanitario. Sono aumentati i costi delle forniture e dei servizi esterni, anch'essi finalizzati a retribuire consenso elettorale. E gli ospedali sono risultati utili ad erogare stipendi, piuttosto che a curare malati.

Così, si è alimentata la politica dell'ospedale sotto casa, in modo da moltiplicare le rendite clientelari, piuttosto che offrire servizi capillari di qualità. Ciò che avrebbe potuto realizzarsi con la medicina del territorio, la quale è stata invece smantellata. Lo sanno bene i malati che ci sono passati. Non gli amministratori locali, i quali, all'occorrenza, sono andati a curarsi fuori Regione, quando non all'estero, consapevoli che della sanità regionale non potevano fidarsi.

Oggi, questo perverso assetto, del quale in tanti si sono resi complici (i favori qualcuno li fa, qualcun altro li riceve) ci presenta il conto. Ed è salato. Anche perché, rispetto al passato, nel conto c'è una voce nuova, che non conoscevamo: lockdown. Non solo, quindi, cure, assenti o inadeguate, per i cittadini. Lo stato precario della sanità viene posto in relazione proporzionale con la durezza delle misure restrittive, così da infliggere chiusure anche a chi ha pochi contagi (come la Calabria) mentre chi ne ha molti, con una sanità capiente, resta zona gialla (il Veneto). Tiriamo dunque le somme. I più penalizzati sono coloro che non hanno mai ceduto alle lusinghe elettorali e ai favori dei maggiorenti. Essi avrebbero diritto a un risarcimento (che spetta a chi ha subito un danno), non ad aiuti (che spettano ai bisognosi). Altri invece a quel sistema hanno partecipato eccome, anche solo tollerando, magari con un sorriso, che le strutture sanitarie venissero depauperate. Questi (tra sé e sé) sopporteranno meglio il disagio (almeno qualche favore lo avranno avuto). Ma non lo danno a vedere. Anzi, sono spesso i primi a gridare allo scandalo e ricevere sussidi. Eppure è evidente dove il federalismo sanitario ha funzionato peggio o meglio. Non è infatti un caso che, nel 2020, anno dedicato dall'OMS agli infermieri, in Italia il rapporto infermieri/ abitanti sia al 5,8 x1000 (media OCSE 8,8) e le Regioni che ne hanno meno siano proprio Calabria e Campania. Non parliamo poi dei LEA (livelli essenziali di assistenza) e di altre technicalities (benchmarks, costi e fabbisogni standard, criteri di riparto, ecc.) che avrebbero dovuto perequare le disparità regionali: sono “clinicamente morti”, direbbe qualcuno. Insomma, c'è voluto il Covid-19 per far capire che la sanità costituisce il sistema immunitario dei nostri territori. E che il federalismo unisce (in chi lo esercita) potere a responsabilità; e richiede (in chi lo subisce) senso civico. Dove nessuno risponde e a nessuno importa, meglio lasciar fare allo Stato centrale.

ALDO BERLINGUER

UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
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