M entre tornano, purtroppo, a crescere i contagi, è ancora più difficile immaginare come e quando la nostra economia riuscirà a lasciarsi alle spalle la crisi innescata dal Covid1-9. La situazione italiana, com'è noto, è peculiare, perché la pandemia si è abbattuta su un Paese a crescita zero.

Il governo italiano ha agito con decisione, mettendo in atto un lockdown fra i più severi, nelle democrazie occidentali. Non è però chiaro se, dopo la progressiva “riapertura” del Paese, abbia con altrettanta decisione provato a mettere in campo quelle misure, poco visibili ma necessarie, per evitare che la situazione scappasse di nuovo di mano. Purtroppo, l'impressione - a cominciare dalla decisione di non utilizzare i fondi del MES - è che attrezzare il nostro sistema sanitario sia stato considerato una priorità meno rilevante che negoziare, in Europa, aiuti e prestiti del cosiddetto Recovery Fund. Il maggior successo politico del governo Conte (perché di un successo politico indubitabilmente si tratta) consiste nell'aver ottenuto quelle risorse. Ma per fare cosa?

Un economista dello sviluppo, Peter Bauer, ammoniva che avere denaro è la fine, e non l'inizio, del processo. Tutti i Paesi ricchi sono stati, a un certo punto, poveri. Ogni tanto nel nostro dibattito pubblico sembra che abbiamo una visione un po' infantile del benessere, come di qualcosa che si ottiene e si mantiene con le mance della nonna. La crescita economica viene da transazioni e scambi.

G li investimenti, di cui spesso si parla, non sono semplicemente denari piantati nel campo dei miracoli: sono risorse messe a disposizione di progetti, che hanno l'obiettivo di realizzare beni e servizi a vantaggio di altre persone, i consumatori.

Nell'Italia di oggi, al contrario, prevalgono da una parte misure che rivelano una sorta di brama acquisitiva da parte del governo: c'è evidentemente la convinzione, senz'altro in buona fede, che lo Stato debba diventare azionista, direttamente o per il tramite del suo braccio armato, la Cassa depositi e prestiti, sostanzialmente di tutto il possibile. Il suo apporto non consiste soltanto in capitali preziosi ma anche, ci viene detto, in una visione strategica. Quale?

È facile nascondersi dietro slogan popolari: green, sostenibilità. Per ora però il governo italiano non ha manifestato obiettivi chiari, e men che meno misurabili, né rispetto al suo intervento diretto nelle aziende private, né per quel che attiene la crisi in generale. Si è parlato, per esempio, di investire al Sud (nonostante, per ora almeno, sia stato colpito solo marginalmente dalla pandemia) il 40% delle risorse europee.

A che scopo? Si tornerà, perlomeno per qualche mese, alla fiscalizzazione degli oneri sociali, un provvedimento che in Italia è già stato in vigore dal 1978 al 1994, senza apparenti benefici al Sud. In omaggio a quale logica?

Meglio sarebbe immaginare una contrattazione aziendale anche del salario, al limite compensata da un intervento dello Stato a vantaggio dei lavoratori, in caso sul mercato si determinasse un salario ritenuto oltremodo basso. Almeno si saprebbe a quale livello di prezzo investitori italiani e internazionali sono disponibili a offrire lavoro al Sud.

L'esito potrebbe essere, dal punto di vista del singolo, analogo alla fiscalizzazione degli oneri sociali. Dal punto di vista dell'impresa e del mercato sarebbero almeno chiare le carte in tavola.

Ma il nostro governo, in realtà, tutto vuole fuorché che funzioni il sistema dei prezzi. C'è un unico filo rosso che unisce tutti gli interventi di cui si discute: il fatto che essi potrebbero prescindere da qualsiasi valutazione delle convenienze, da qualsiasi analisi dei relativi costi e dei relativi benefici. Dobbiamo fidarci, ancora una volta, delle buone intenzioni di chi ci governa. Basteranno davvero? Questa è forse la caratteristica più drammatica e deleteria dell'Italia post-Covid. La pandemia sta contribuendo a fare tornare indietro la nostra cultura politica di un ventennio. Procedure chiare e certe? Diritti individuali? Autorità di regolazione indipendenti dalla politica? Nell'emergenza, sono diventate tutte formule retoriche, insostenibili. Conta solo che si agisca, e appena possibile.

Con quali obiettivi? Con quali mezzi? Perché? Queste sono le domande che la pubblica opinione informata dovrebbe fare al governo. E che non fa più.

ALBERTO MINGARDI

DIRETTORE DELL'ISTITUTO

“BRUNO LEONI”
© Riproduzione riservata