In un mondo globalizzato poteva essere una sorpresa che le case farmaceutiche diventassero delle industrie multinazionali? No, se queste aziende operano nell’innovazione terapeutica, nella produzione, commercializzazione e distribuzione di farmaci e medicinali in tutto il mondo. Perché allora chiamarle Big Pharma? Perché nel loro modello di business è insita la capacità di identificare nuove tecnologie mediche, testarle in grandi istituti e promuovere il risultato con un intenso lavoro di marketing e vendita. E poi per i loro profitti.

Infatti solo nel 2020, le 50 multinazionali del farmaco più grandi hanno generato una fatturato di 851 miliardi di dollari. Per avere un termine di paragone la Commissione europea prenderà a prestito da qui al 2026 fino a 807 miliardi di euro per finanziare il PNRR. Peccato però che il pensiero critico sulle Big Pharma si fermi qui senza aprire uno sguardo sulla innovazione che producono. L’epatite da virus C è una patologia endemica che interessa circa il 3% della popolazione con una mortalità annua di diverse migliaia. I costi connessi alla assistenza dei pazienti e quelli per la perdita delle giornate lavorative raggiungono, nel nostro Paese, quasi un miliardo all’anno. I farmaci anti HCV consentono la guarigione in oltre il 90% dei casi trattati, per cui i servizi sanitari affrontano il costo di circa 40-50 mila euro per ciclo di trattamento perché il rapporto costi benefici è positivo.

Molti vedono le Big Pharma solamente come gruppi economici che condizionano la nostra salute. Nel loro pensiero il Covid è un virus inesistente e noi siamo delle cavie perché le Big Pharma con i vaccini introducono nel nostro organismo dei chip per condizionare la nostra vita. Dimenticano che sono, invece, le Big Five Tech, Amazon, Alphabet (Google), Facebook, Apple, e Microsoft (il cui valore si avvicina al PIL di Germania e Giappone messi assieme) a condizionare la nostra vita perché sono l’interfaccia obbligato con cui interagiamo ogni giorno.

Il dottor Elvin H. Geng, ha pubblicato sul “New England Journal of Medicine” di gennaio alcune considerazioni sulla fiducia in medicina. Nel lavoro riferiva di un paziente con HIV che rifiutava le cure perché “l'HIV non era la causa dell’AIDS e i farmaci erano inutili nella migliore delle ipotesi e tossici nella peggiore”. A sostegno della sua tesi aveva citato i primi rapporti sull’HIV - citando rivista, data e autore e sottolineato incongruenze come in un lavoro fondamentale degli anni '80 che il Dr Geng non conosceva.

Il negazionismo dell’AIDS ha sempre fatto parte della crisi dell'HIV. Negli anni '90, il virologo Peter Duesberg ha negato a gran voce che l’HIV causi l’AIDS. Ha suggerito che gli elementi dello “stile di vita gay”, come l'uso di droghe, portassero all’immunodeficienza. Le teorie di Duesberg, si diffusero ampiamente tanto che molti suoi seguaci lasciarono morire i loro figli piuttosto che sottoporli a cure comprovate. Nel suo lavoro dal titolo “The Doctor's Oldest Tool” il Dr. Geng ha sostenuto che la scienza è un sistema imperfetto, ma che il lavoro è sottoposto a revisione paritaria, i dati falsi vengono smascherati e dozzine di studi rigorosi con risultati simili non potrebbero essere tutti sbagliati. Le argomentazioni del suo paziente contenevano più di un granello di verità: l'industria farmaceutica influenza la scienza, i profitti dettano la pratica medica, il desiderio di prestigio scientifico corrompe i ricercatori.  

Il dottor Geng ammise di fronte al paziente di non essere molto esperto in questa ricerca scientifica ma alcuni pazienti che avevano assunto le terapie prescritte, stavano meglio. Inaspettatamente il suo paziente decise di provare.

Il negazionismo del Covid, dice il dottor Geng, rivela che noi medici sopravvalutiamo la nostra autorità clinica e ci aspettiamo che i pazienti si comportino razionalmente. Ma tutti noi sviluppiamo le nostre convinzioni con altre persone di cui ci fidiamo. Ma se l’accettazione dei vaccini Covid e di altri interventi basati sull’evidenza dipende dalla fiducia, i medici se la devono giocare parlando con i pazienti.

Antonio Barracca

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