"Accogliendo il desiderio del cardinale Montenegro, concediamo che il venerabile servo di Dio Angelo Rosario Livatino d'ora in poi sia chiamato beato e che, ogni anno, si possa celebrare la sua festa il 29 ottobre".

Con queste parole che il giudice Livatino – ucciso dalla mafia nel 1990 - è stato proclamato beato nel corso di una cerimonia solenne celebrata nella cattedrale di Agrigento.

In contemporanea il reliquario dove è contenuta la camicia indossata dal beato il giorno in cui venne assassinato è stato collocato in una teca della cattedrale. Si tratta di un reliquiario realizzato in argento martellato e cesellato. 

"Considerando la vicenda di Rosario Livatino ci tornano vivide alla memoria le parole di san Paolo VI: 'L'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni. Il nostro Beato lo fu nel martirio. La sua vita, avrebbe detto il Manzoni, fu il paragone delle sue parole", ha proseguito il cardinale Marcello Semeraro.

"Credibilità fu per lui la coerenza piena e invincibile tra fede cristiana e vita. Livatino rivendicò, infatti, l'unità fondamentale della persona; una unità che vale e si fa valere in ogni sfera della vita: personale e sociale. - ha proseguito –. Questa unità Livatino la visse in quanto cristiano, al punto da convincere i suoi avversari che l'unica possibilità che avevano per uccidere il giudice era quella di uccidere il cristiano. Per questo la Chiesa oggi lo onora come Martire".

"Il miglior modo per ricordarlo è imitarlo nel suo luminoso esempio di virtù civili e cristiane. Ora che è beato, dobbiamo stare attenti a non farne un 'santino' da invocare o da celebrare. Il miglior modo per ricordarlo è invece imitarlo nel suo luminoso esempio di virtù civili e cristiane. Oggi più che mai, Rosario Livatino vive", ha affermato don Luigi Ciotti.

"Rosario Livatino - ha aggiunto - vive nella memoria di chi l'ha conosciuto. Vive nel lavoro della cooperativa di giovani che porta il suo nome, e coltiva le terre confiscate ai boss. Vive nell'ammirazione di tanti magistrati, giuristi e studenti che a lui si ispirano nel coltivare l'amore per il diritto e soprattutto per i diritti di ogni persona. Vive nell'impegno di chiunque si spenda contro ogni forma di prepotenza, violenza e sopraffazione dell'uomo sull'uomo. Rosario Livatino non era un uomo dalle grandi certezze, ma piuttosto dalle grandi e coraggiose domande. Il dubbio, la domanda profonda e feconda, erano il motore del suo pensiero e la premessa del suo agire. Sia nella fede che nella professione.

"Non gli interessavano una fede esibita o una carriera brillante. Aderiva con sincerità di cuore al Vangelo e lo incarnava nelle sue scelte di vita. Con altrettanta sincerità - ha ricordato ancora don Ciotti - aderiva alla legge per farla rispettare, sapendo però che la legge è sempre solo un mezzo, mentre il fine è la giustizia. L'abitudine a interrogare senza sconti la propria coscienza non lo rendeva incerto nell'azione. Era anzi un magistrato risoluto, capace di portare avanti inchieste scomode e imboccare strade innovative, ad esempio riguardo alla confisca dei beni mafiosi.

"Un'altra sua caratteristica era l'enorme senso di responsabilità. Si sentiva responsabile verso lo Stato - ha concluso don Ciotti - e verso il ruolo di tutore della legge che gli aveva affidato".

(Unioneonline/F)

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