“Sono sopravvissuta dopo aver perso tutta la mia famiglia”
Nel 1998 il padre, la madre e i fratelli di Tania Suella morirono in un incidente stradale: “Certi dolori non si superano ma vado avanti”
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Quella telefonata le riecheggia spesso nella mente. «Tania, perché non sei tornata a casa? Dove sei? Dalla tua compagna di banco a Cagliari? Perché non ci hai avvertito? Ti aspettavamo a casa a Pula dopo la scuola. Ci hai fatto preoccupare».
L’ultimo dialogo tra Tania Suella e la mamma è avvenuto il 31 marzo del 1998, ventiquattro anni fa. «Era dispiaciuta, mi ha rimproverato. All’uscita di scuola, istituto Alberghiero di Pula, anziché tornare a casa, a Capo Blu, ho accettato l’invito della mia compagna di banco e sono salita sulla corriera per Cagliari. Senza neppure fare una chiamata ai miei. Dovevamo studiare insieme, poi abbiamo fatto una passeggiata in centro».
Tania aveva 16 anni. Non poteva immaginare che poco dopo la sua vita sarebbe cambiata per sempre. Alle 19 il padre Paolo, la madre Paola e i suoi quattro fratellini sono partiti in auto per andare a trovare un parente a Frutti d’Oro. Non sono mai arrivati: in un incidente stradale all’altezza di Villa d’Orri, territorio di Sarroch, tutti hanno perso la vita. Colpa anche di un cordolo che ha fatto sbandare l’auto e che dopo una settimana è stato eliminato. Una tragedia che fece piangere la Sardegna intera. Tania durante i funerali celebrati dall’allora vescovo ausiliare di Cagliari Tarcisio Pillolla, si alzò dal banco per abbracciare le bare: quella della madre, del padre, poi i feretri bianchi dei due fratellini più piccoli. Non ce la fece a baciarle tutte: si accasciò, vinta dal dolore. Il dubbio le è rimasto in fondo al cuore: «Se quel giorno non fossi andata a studiare dalla mia amica, probabilmente sarei stata anche io con loro».
Tania Suella oggi ha l’età della madre, 40 anni, lavora in un supermarket di Capoterra, è sposata con Federico Serra, autista di Sarroch, hanno avuto due bambini, dieci e sette anni. La femminuccia ha gli occhi blu della nonna e il nome della sorellina, Natascia, volata in cielo in un istante, nel momento in cui l’auto ha invaso l’altra corsia e ha centrato un camion che trasportava pomodori. È una donna sorridente, Tania, solare, realizzata nel lavoro e nella famiglia.
Come è possibile superare una tragedia simile?
«Non lo so, e non so se io l’abbia mai superata. Sicuramente mi hanno aiutato il carattere forte di mio padre e il sorriso di mia madre: fin da bambina sono stata molto inquadrata, indipendente, ho sempre avuto la testa a posto, non mi sono mai fatta influenzare dagli altri, ho sempre cercato di cavarmela da sola. Dopo la disgrazia non è stato facile, ho pensato a diplomarmi, a cercare un lavoro, non mi sono mai chiusa in casa, ho sempre cercato di condurre una vita normale: gli amici, una pizza, una serata a ballare».
C’è riuscita?
«Sì. Ma non nego che nel profondo, anche adesso, certe volte mi sento sola. Una solitudine particolare: da un momento all’altro ho perso padre, madre e quattro fratellini, io ero la più grande. E mi mancano. Mi manca mia madre, che adorava i bambini e sarebbe stata una nonna fantastica. Mi manca mio padre, un uomo forte, buono, grande lavoratore, che si faceva in quattro per noi. E poi Enea, aveva 14 anni, era un bambino chiuso ma buonissimo, Natascia (11 anni) che era innamorata degli animali, della vita all’aria aperta, Jonatan, (10 anni) un giocherellone sempre sorridente come mamma, e Samuele, aveva quattro anni, il piccolo di casa. Ma loro sono sempre con me».
Cosa ricorda di quel giorno?
«Quella sera non ho saputo nulla. Non avevo il telefonino, non ho guardato la tv. Ero all’oscuro di tutto. L’indomani sono arrivata con il pullman a scuola, una persona vicina all’edicola mi ha riconosciuto e mi ha detto: i tuoi sono tutti morti. Sono crollata. È venuto a prendermi il marito di mia zia, sorella di mamma, mi hanno accolto a casa, devo a loro se ho potuto studiare e proseguire la mia vita di sempre anche se poi non è stata più la stessa».
Che lavoro faceva suo padre?
«Il guardiano a Capo Blu. E mia madre teneva pulite le villette, la aiutavo anche io quando finivo la scuola. Eravamo una famiglia finalmente felice, dopo tempi difficili: merito di mio padre, della sua voglia di lavorare. Era benvoluto da tutti».
Crede in Dio?
«Quando accadono certe cose metti in discussione un po’ tutto. Io ho coltivato una fede nei confronti della Madonna: ho pregato molto anche quando non riuscivamo ad avere dei bambini e io ci tenevo tantissimo: non volevo più rimanere sola al mondo».
Chi l’ha aiutata?
«In tanti. Anche parenti, certo, ma soprattutto persone che mi hanno conosciuto per caso, magari non sapevano la mia storia e mi hanno apprezzato per quello che sono diventata, una donna, una mamma che tiene tanto alla sua famiglia. Tra queste c’è una cara amica di Cagliari che mi ha aiutato anche per il lavoro, ha l’età di mia madre, le devo tanto».
Ha raccontato a suoi figli la verità?
«Sanno che nonno, nonna e gli zii non ci sono più, li proteggono dal cielo. Qualche volta li vesto con magliette o biancheria che apparteneva ai miei fratellini. Quando sono andata a liberare la casa di Capo Blu ho preso tante cose, anche abiti di mia madre e camicie e giubbotti di mio padre. Quel che mi resta di loro, oltre a bellissimi ricordi».
Parla spesso dei suoi cari che non ci sono più?
«Sì, ogni occasione è buona perché è giusto coltivare il ricordo di chi hai amato tanto. L’altro giorno, per esempio, il mio maestro di tennis a Pula, Fabrizio Mei, mi ha regalato una foto di Natascia: mia sorellina giocava con lui a tennis nella scuola elementare di Santa Margherita. Io non sapevo neppure che avesse praticato quello sport, Natascia. Mi ha fatto un piacere immenso».
Paolo Carta