Massimo Pistoia respinge tutte le accuse: non ha mai trasportato fanghi dalle ex vasche Enichem interne all'impianto della Portovesme srl, si è limitato a rimuovere gli scarti dopo la demolizione dei capannoni dell'azienda. E per far quello aveva tutte le autorizzazioni: trasporto, smaltimento e riciclo.

Indagato per traffico di rifiuti pericolosi e nocivi il titolare della Tecnoscavi ribadisce la correttezza delle operazioni compiute nella cava di Settimo San Pietro. Attraverso l'avvocato Riccardo Floris fa sapere di avere la coscienza a posto e le carte in regola.

Quanto all'alta concentrazione di metalli rilevata prima dai carabinieri del Nucleo operativo ecologico poi dagli esperti della Provincia di Cagliari, offre una spiegazione: quando gli inquirenti hanno fatto il blitz nella cava di Settimo San Pietro il materiale non era stato ancora separato. «I carabinieri sono rimasti un mese e mezzo nella cava della Tecnoscavi», dice l'avvocato Floris, «Pistoia ha messo a disposizione i suoi macchinari e il Noe ha fatto le analisi con mezzi sofisticati. È vero che alla fine sono stati rilevati, solo in una parte dei campioni, metalli in quantitativi poco al di sopra di quanto consentito dalla legge, ma poi noi abbiamo incaricato alcuni consulenti tecnici che sono arrivati alla conclusione opposta: tutto nella norma».

Insomma, la difesa dell'imprenditore cagliaritano fa la cronaca di una storia completamente diversa da quella descritta dal sostituto di Cagliari Daniele Caria nell'avviso di garanzia notificato ai nove indagati. Pistoia dice che non c'è stato alcun traffico di rifiuti pericolosi, solo il trasporto e il riciclo di materiale derivante dalla demolizione di un edificio industriale presso la Portovesme srl. Ecco perché non ci sarebbero pericoli per la salute pubblica: i parcheggi antistanti l'ospedale Businco di Cagliari e la cittadella sanitaria di via Romagna (per errore ieri il giornale ha parlato del policlinico universitario di Monserrato) sono stati realizzati con materiale inerte, il cemento depurato dalla plastica e dal ferro, miscelato e poi utilizzato come sottofondo stradale. Gli scarti sono stati smaltiti nelle discariche autorizzate.

Fin qui la difesa di Pistoia attorno al quale ruota l'intera vicenda, se non altro perché è da una segnalazione anonima sul lavoro nella cava di Settimo San Pietro che è partita l'indagine del Noe. Il pm Daniele Caria si appresta a chiedere il rinvio a giudizio non solo di Pistoia ma anche del responsabile del sistema Gestione ambientale Aldo Zucca e della responsabile della gestione rifiuti dello stabilimento Portovesme srl Maria Vittoria Asara, del gestore della società Gap service srl Lamberto Barca, dei dipendenti della Tecnoscavi Stefano e Giampaolo Puggioni e Larbi El Oualladi, del titolare della cava di Serramanna Egidio Ortu, del socio e coordinatore dell'area chimico-analitica del laboratorio di analisi Tecnochem srl Danilo Baldini.

In due anni di indagini gli investigatori sono convinti di aver interrotto un vasto traffico di rifiuti nocivi e pericolosi che partivano dalla Portovesme srl e venivano stoccati e riciclati in due cave di Serramanna e Settimo San Pietro. Quindicimila tonnellate di rifiuti ad alta concentrazione di arsenico, piombo, zinco, cadmio, rame, nichel, solfati e fluoruri. In Sardegna non ci sono siti per smaltire quel tipo di materiale quindi, secondo l'accusa, il ritorno economico dell'operazione era considerevole: Pistoia avrebbe ottenuto 53.200 euro più 180.000 euro per circa 600 trasporti (ogni carico costava tra i 250 e i 300 euro). In più c'era anche il guadagno relativo ai corrispettivi di vendita delle terre miste a rifiuti per i fondi stradali. Alla fine dei conti la Portovesme srl avrebbe conseguito un ingiusto profitto compreso tra i 585.000 e i 3 tre milioni e seicentomila euro relativi alla riduzione dei costi aziendali di smaltimento regolare in una discarica autorizzata.

Secondo l'accusa la Portovesme srl aveva incaricato la Gap service delle operazioni di gestione, trasporto e cessione dei rifiuti. Parte di quel compito era materialmente affidato a tre dipendenti della Tecnoscavi, una ditta che gestisce una cava a Settimo San Pietro ma i mezzi non erano autorizzati per quel tipo di trasporto e i documenti di viaggio e i formulari di identificazione dei rifiuti fossero falsi. Il resto finiva a Serramanna dove il titolare di un'area soggetta a miglioramento fondiario consentiva lo spandimento e l'interramento dei rifiuti pericolosi. Il tutto era possibile perché c'era chi firmava certificati di analisi con false indicazioni sulla provenienza e sulla natura dei rifiuti: classificati non pericolosi potevano entrare nelle cave gestite dai titolari compiacenti.

MARIA FRANCESCA CHIAPPE
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